Una recensione di norma non dovrebbe iniziare così. Eppure è impossibile non dire subito, semplicemente, che “Amici di una vita” di Hisham Matar (Einaudi, traduzione di Anna Nadotti) è un romanzo bellissimo, proprio bellissimo. Matar ha 54 anni, è nato a New York da genitori libici e in Libia è cresciuto, ha scritto altri romanzi importanti (il più bello è “Il ritorno“, sempre Einaudi), ed è uno scrittore di grande eleganza nonché raffinato indagatore dei sentimenti umani nel loro incrociarsi con la Storia.

Qui si racconta, come suggerisce il titolo, dello sviluppo di una triplice amicizia tra il protagonista, Khaled, il sanguigno Mustafa e l’intellettuale dubbioso ed enigmatico Hosam, tutti e tre rimasti feriti (ma i primi due all’epoca non conoscevano il terzo) in una sparatoria davanti alla Ambasciata libica a Londra nel 1986. Erano giovani, quelle ferite gli rimarranno dentro come un monito o un rimorso: «Non avrò mai le parole per spiegare cosa provi se ti sparano, se non puoi trovare a casa o devi rinunciare a tutto ciò che progettavi per la tua vita, o per spiegare la sensazione di essere morto quel giorno in St. James’s Square e di essere rinato, per qualche grottesco accidente, nei panni infelici di un naufrago diciottenne, arenato in una città straniera dove non conosceva nessuno e non sapeva come cavarsela, riuscendo a stento a fare passare le giornate, dal mattino alla sera, una dopo l’altra».

Il romanzo, che si svolge principalmente nella capitale inglese, si dipana in un andirivieni di vicende – non ha un andamento lineare – che intrecciano la vicenda politica della Libia e le vite private dei tre amici viste dal protagonista che è l’unico che non farà ritorno nel suo paese nel momento cruciale della Primavera araba: Mustafa e Hosam, diventati combattenti, addirittura cattureranno Gheddafi rintanato come un animale in un tubo di ferro alla periferia di Sirte, la sua città natale – tutti ricordano le orrende fotografie del dittatore poi giustiziato dalla folla: «Ardevo di speranza; di speranza, di paura e furiosa impazienza. Durante il giorno cercavo di tenerla a bada ma la notte mi arrendevo. E aveva un nome, Primavera araba, una condizione temporanea che tuttavia non conosceva limiti o frontiere, una condizione fatta tanto per il cuore quanto per il parlamento, e che apparteneva alla natura, al ciclo eterno delle stagioni, confermando ciò a cui dentro di me ho sempre creduto: che al pari del fiore, la libertà verrà, e per quanto l’inverno sia altrettanto certo, non può durare per sempre».

Grazie alla bravura di Matar, dietro il grande mantello della Storia si stagliano queste grandi figure dei tre amici, con le loro ansie, le loro paure, i loro “trascurabili momenti di felicità”, per dirla con Francesco Piccolo. La gioia intermittente che punteggia la quotidianità di Khaled è sormontata dall’inquietudine: non sarà dalla parte sbagliata, con amici sbagliati, con amori sbagliati, in una città sbagliata?

Sono pagine vergate con lo stile dei grandi narratori che vanno – per così dire – gustate con una certa lentezza per meglio catturare i sottili mutamenti psicologici di Khaled, il narratore sempre in bilico tra raggiungimento di una soddisfazione personale e persistenti sensi di colpa: lui è a Londra mentre la Libia, e i suoi genitori, soffocano sotto una dittatura ottusa. E l’amico Hosan, scrittore mancato, e l’altro nervoso amico Mustafa, con le loro fallimentari vicissitudini sentimentali e di vita, accompagnano i pensieri di Khaled, consapevole che «nulla dura per sempre»: la sua vita si attorciglierà su sé stessa lasciandolo solo di fronte alla Storia e all’esistenza.