“Quanti mesi, quanti anni ci vogliono perché un bambino diventi un ragazzo e un ragazzo un uomo? Quando si può affermare che la transizione è avvenuta? Non esiste, come per la fine degli studi, una proclamazione solenne, una cerimonia ufficiale, un diploma. Alain Poiteaud, a trentadue anni, impiegò poche ore, forse pochi minuti, per cessare di essere l’uomo che era stato fino a quel momento e diventare un altro”. Bastano poche righe e il lettore dice: questo è Simenon! Ogni volta si ripete il meccanismo: lo scrittore belga t’incanta, Maigret o non Maigret, e moltissimo nei romanzi piccoli piccoli che sfiorano il racconto nel solco della grande tradizione francese da Maupassant in giù. Come in questo ultimo libro che Adelphi ha mandato in libreria, “La prigione” (trad. di Simona Mambrini), densissimo flash su una brutta storia e ancora più pessimi personaggi.

Il principale dei quali si chiama, lo abbiamo visto, Alain Poiteaud, è un editore arricchitosi con una rivista da anni Settanta, donnine nude e vicende penose, una specie di antenata del gossip di oggi, giovane, bello, mezzo alcolizzato, un uomo che non sa stare da solo e che saluta tutti chiamandolo ognuno “cocco”, uno stuolo di amanti come capita capita. I colleghi sono finti amici, gente con cui sbronzarsi, è un piccolo mondo di cartapesta, una vita a duecento all’ora, ha pure un figlioletto lasciato nella residenza di campagna con le governanti. Una mattina la polizia gli comunica che la moglie Jacqueline soprannominata “Micetta”, ha ucciso senza che si capisca il movente la sorella, cioè la cognata di Alain, Adrienne soprannominata “Bimba”, con la quale lui era andato a letto per anni. Storiaccia di ricchi rifatti, come si dice a Roma, il cui sviluppo non raccontiamo e tantomeno il duplice colpo di scena.

Una storia angosciante come questa non poteva che ambientarsi in una Parigi livida, fradicia di pioggia (un classico dei Maigret di Simenon), ed è questa Parigi opprimente la prigione del titolo perlomeno in senso esteriore perché la vera prigione è quella dove è rinchiusa vestita dei suoi tailleur a la moglie assassina e poi infine l’oppressione è nella testa del protagonista intrappolato in un’esistenza senza senso. E qui spunta il Simenon “camusiano”, forse senza saperlo, che gira intorno alle sue storie con l’eterno interrogativo: perché?

Come sempre in Simenon la trama ti prende e chiuso il libro restano le domande esistenziali classiche: chi è veramente questo Alain (sarà per il nome ma non possiamo fare a meno di immaginarci Delon), questo ragazzo-uomo debolissimo dietro lo schermo di un successo puramente commerciale, dunque effimero, destinato a sfarinarsi sotto i colpi della vita? Cos’è veramente un matrimonio, al di fuori dell’immagine? Chi è davvero questa misteriosa “Micetta” che ammazza la sorella? “Ogni tanto gli succedeva di guardare le labbra di sua moglie che si muovevano. Sapeva che stava parlando, ma le parole non lo raggiungevano, erano senza senso. Gli sembrava che fossero tagliati fuori dalla vita, sprofondati di colpo in un mondo irreale, stagnante, da cui, in preda al panico, lui si sforzava di fuggire”. Già, fuggire, ma dove? Un’altra domanda. Perché, dove… Non ci sono risposte. Il pessimismo di Georges Simenon è in un certo senso tranquillo perché è irrimediabile, come le storture morali dell’uomo.