Il ministro e la commedia di un governo in affanno
Sangiuliano prova ad arruolare Dante in Fratelli d’Italia, le follie del ministro
Tutti in piedi, parla il signor Ministro della cultura. Ed escono fuori dalla sua bocca verità così spiazzanti, unite a ragionamenti così finemente congegnati sulla storia delle idee, da far perdere i sensi. Che ingegno acuto, che sapere enciclopedico, che erudizione vasta. Non si diventa a caso il nemico ministeriale dell’egemonia gramsciana e censore del linguaggio dei “radical chic”. I partiti di destra stentano nella produzione di idee e arrancano molto nel proselitismo? Niente paura, Sangiuliano ha la trovata giusta: basta arruolare i morti, che tanto non parlano con anglicismi, e iscrivere d’ufficio Dante nell’albo degli affiliati d’onore a Fratelli d’Italia. D’altronde, chi più della destra radicale ha il culto arcano dei morti?
La Meloni stessa, la sera della vittoria elettorale di settembre, da un palco ha dedicato il successo a “tutte le persone che non si sono più”. E allora si dia il via alle coscrizioni obbligatorie per mettere una divisa e i distintivi ai defunti più illustri. Forse il ministro avrà avuto notizia che il giurista Hans Kelsen, nella sua tesi di dottorato dedicata a Dante politico, definiva il fiorentino un “reazionario”. E chi c’è in giro di più retrivo della destra post-fascista? Il gioco è presto fatto: un campione della reazione, e che campione, è disponibile sul mercato delle idee a costo zero. La destra italiana ha trovato il suo “fondatore”. Solo che il termine “reazionario” in Kelsen aveva un’accezione ben diversa rispetto a quella che scalda il cuore (già missino) del ministro partenopeo: Dante veniva così appellato perché sognava un Impero, cioè aveva fondato un approccio alla politica incentrato non sul regno ma sul primato del diritto internazionale.
Alla nostalgia di Roma, dove anche senza l’unzione della Chiesa “Imperium habuit totam suam virtutem”, egli univa uno sguardo che, si potrebbe dire con linguaggio illuminista, apriva a squarci di vero cosmopolitismo. Con la celebrazione del modello politico di una “perfecta Monarchia” come “una organizzazione comprendente tutta l’umanità”, Dante insomma non era propriamente un sovranista. Secondo Kelsen, nelle sue pagine si mostrava ben visibile “un totale disconoscimento della nazionalità”. In tal senso, egli era un anticipatore di un mondo del tutto nuovo e per così dire globalizzato. A parere di Kelsen, la Monarchia di Dante scavalcava persino l’immagine di uno “Stato di diritto dell’umanità” per evocare “l’idea del moderno Stato di cultura”, cioè “non le singole nazioni, bensì tutta l’umanità come produttrice e portatrice di una cultura pensata da lui unitaria”.
Etienne Gilson spiega in questi termini il concetto di Impero formulato da Dante: si tratta dell’invocazione della “humana civilitas” o “universalis civilitas humani generis” che deve esprimere un super-Stato in grado di interdire gli Stati particolari, scrutati come agenti del disordine. È estranea a Dante, il cantore della “gentilezza”, quella aggressività sovranista che induce Giorgia Meloni a denunciare il mite David Sassoli come “un nemico degli italiani”. Una precisazione di Gilson è istruttiva: quella di Dante “è la prima formula moderna di una società temporale unica del genere umano tutto intero”. Utilizzando lo stampino grossolano del ministro Sangiuliano, c’è molta sinistra, radicale per giunta, in questa visione (che va dalla civitas maxima del giusnaturalismo all’internazionalismo dei marxisti), e poca, molto poca destra. L’ossessione dei Fratelli d’Italia di esaltare, come una clava contro le differenze, le radici giudaico-cristiane dell’Europa non sembra troppo compatibile con il succo dell’opera di Dante. La sua invocazione unitaria esce dal messianismo religioso per entrare nel mondo terreno e politico.
Qui arriva a contestare non solo il particolarismo statuale, ma a nutrire qualche dubbio anche sulla universalità effettiva dell’organizzazione ecclesiastica. Ancora Gilson chiarisce il problema: “Dante rigetta l’autorità della Chiesa che potrebbe ritardare la nascita della società del genere umano”. Nel suo disegno, più che il dominio universale della fede, a fondamento dell’Impero compare l’autonomia della ragione, quella di origine aristotelica (Gilson si spinge sino a definire Dante, per questo motivo, un “rationaliste intégral”). Le blandizie del poeta nei confronti dell’infedele Averroè e dello “spirito sapiente” Sigieri di Brabante autorizzerebbero le urla sgraziate della patriota contro l’invasione islamica, che avviene stavolta nel regno delle idee. Nel Convivio Dante azzardava, sulla scia dei pensatori arabi, anche il pensiero sovversivo per cui “il mondo sempre sia stato con più uomini, sì che da uno solo la umana generazione discesa non sia”. Il fatto è che il fiorentino pone a fondamento dell’Impero non già la fede dogmatica e repressiva della donna, madre e cristiana, collezionista di angeli, bensì – per dirla con Gilson – “la ragione naturale che è in grado di realizzare l’accordo di tutti sulla verità di una stessa filosofia”. Lo storico della filosofia francese completa così la sua interpretazione: Dante “fonda la sufficienza della filosofia a guidare l’Impero”.
Questa struttura istituzionale completa e gerarchizzata opera nel mondo come efficace ed aperta base organizzata di “una morale e una politica universalmente valide”. A sentire lo storico Walter Ullmann, in Dante compare un embrionale scarto in termini di effettiva universalità tra umanità e cristianità. Su questa base, “l’umanità è concepita come un tutto unico, non composto dai soli cristiani, ma anche dai musulmani, dagli ebrei e dai pagani”. Il laboratorio plurale di Dante conferma la presenza di un autore sfuggente: è allegorico e polisemico, profetico e sentimentale, simbolico e allusivo, nostalgico e progettuale. Niente a che fare con gli slogan a senso unico di Sangiuliano. E a proposito della destra, e della vacuità del maldestro impossessamento ministeriale, si potrebbero ricordare le affermazioni di Gianfranco Contini: “esistono legittimamente un Dante, per così dire, di destra, un Dante di centro, un Dante di sinistra”. Per questo i tentativi di appropriazione indebita sono ricorrenti, e nel tempo, ricorda Francesco De Sanctis, tutti hanno cercato di tirare Dante da una parte sola: “chi ci trova il cattolico, chi l’eretico; chi l’esaltato, chi il moderato”.
Nessuno lo aveva però iscritto d’imperio alla fiamma tricolore che ha nostalgia dell’inferno mondano di Salò. E sorprende che questo furto del pensiero politico di Dante – che si definiva un esule, un naufrago che, scampato il pericolo, “si volge all’acqua perigliosa e guata” – sia perpetrato da chi riduce l’azione di governo ad una infinita battaglia navale contro i naufraghi (senza quel senso di umano pathos di chi “si volse a retro a rimirar lo passo/ che non lasciò già mai persona viva”). A destra non ci sono, per fortuna, solo ricostruzioni dilettantesche che non temono di sfidare il senso del ridicolo. Un filosofo come Gentile, nei suoi Studi su Dante, presentava la Monarchia come “il primo atto della ribellione alla trascendenza scolastica”. E raffigurava l’averroismo come “la filosofia dei ribelli”, cioè una sorta di “filosofia dell’Aufklärung medievale”. Insomma, concezioni del tutto laico-razionali, pre-illuministiche, che certo non appartengono all’universo ideale di Sangiuliano o Meloni. La quale, di notevole nella sua vita pubblica, ha all’attivo un video molto creativo girato in una pompa di benzina.
Nel filmino la statista dà il meglio di sé come una venditrice di fumo che giura, una volta salita al potere, di uccidere per sempre le accise, che tanto denaro rubano ai cittadini in auto. Ecco, alla luce dei fatti che sono seguiti alle parole, con gli strumenti poetici di Dante la si potrebbe collocare nella X bolgia dell’VIII cerchio. Cioè tra i falsari, non di monete (anche se al governo potrebbero sempre essere di utilità), ma di parole. I falsificatori della lingua, i bugiardi o mentitori che ingannano, sono malati di “febbre aguta”, madidi di sudore, fumanti come le mani bagnate d’inverno (“li due tapini che fumman come man bagnate ‘l verno”). Nella bolgia, insieme alle figure deformi, grottesche e dolenti a un tempo, che scontano le loro avvilenti pene, potrebbero entrare coloro che dai banchi del governo osano mentire a danno (pubblico) altrui. Nell’alternarsi stilistico di esordio tragico (con riferimenti al mito) e finale comico, di tono drammatico e linguaggio triviale, i falsari di Dante finiscono per precipitare in un bozzetto farsesco.
Tra reciproche percosse, risse e liti verbali (il “piato”), si rinfacciano colpe, si scambiano responsabilità con le risorse del vocabolario più volgare. Sembra la scena dell’ultimo Consiglio dei ministri, finito a pesci in faccia tra i troppi mentitori alla ricerca di un capro espiatorio. Che dire dopo la scivolata del governo nel registro della tenzone e gli spunti di critica dantesca dei suoi più illustri esponenti? Viene quasi da rimpiangere i tempi in cui, prima delle elezioni, il responsabile cultura di FdI se la prendeva con Peppa Pig, intimando la Rai di non mandare in onda “l’indottrinamento gender” impartito da una serie per bambini ospitante “un personaggio con due mamme”. Ma oggi, più che ad un cartone animato, sembra di assistere ad una (non divina) commedia di un governo che ha finito la sua luna di miele senza averla neppure cominciata.
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