Le atrocità che hanno colpito Israele
Sei mesi dal Sabato Nero, il 7 ottobre il più grande massacro di ebrei dal tempo della Shoah
Un orrore senza fine: l’abominio si è consumato con caratteristiche di esecuzione di cui neppure i nazisti seppero dare dimostrazione
Domani sono sei mesi dal Sabato Nero. Sei mesi dal più grande e selvaggio massacro di ebrei dal tempo della Shoah, ma questa volta avvenuto all’interno dello Stato che ancora non esisteva quando la persecuzione degli ebrei dilagò in tutta Europa riuscendo a cancellarne quasi del tutto l’esistenza. Il richiamo alla Shoah è doppiamente dovuto. Innanzitutto, perché il 7 Ottobre è stato il mostruoso conato di un intendimento sterminatore che quei “combattenti”, con i loro mandanti e propagandisti, hanno rivendicato senza nessun infingimento: rifarlo e rifarlo e rifarlo, dal fiume al mare, fino alla cancellazione anche dell’ultimo ebreo. In secondo luogo, il richiamo è appropriato, per così dire, in negativo, perché in realtà quell’abominio si è segnalato per caratteristiche di esecuzione e per un orgasmo nell’atrocità di cui neppure i nazisti seppero dare dimostrazione.
Il massacro, gli sgozzamenti, le decapitazioni, gli stupri, i rapimenti del 7 Ottobre, infatti, solo vagamente – e solo perché ne condividono la motivazione odiosa – possono essere paragonati alle violenze che i nazisti infliggevano agli ebrei in quegli anni del secolo scorso. Perché la platealità e vastità di quella persecuzione, e le oscenità con cui essa era attuata, erano comunque protette da una coltre di ordinarietà; e gli ebrei messi sui carri bestiame facevano poco effetto sulla scena di una propaganda che li rappresentava come sanguisughe o ratti che portavano malattie. Nulla a che vedere con gli adolescenti sgozzati l’autunno scorso, trascinati nella polvere e offerti alla folla che ne riempiva la bocca di escrementi. Nulla a che vedere con le donne ebree caricate con le ossa rotte e i genitali tormentati sui pick up e sulle motociclette dei “resistenti”. Nulla a che vedere perché i nazisti infierivano bensì sugli ebrei con indicibile efferatezza (anche se, forse, senza abbandonarsi regolarmente a un tal grado di barbara inventiva), ma non si esibivano nel compiacimento, nella gioia, nella festosa rivendicazione di cui invece hanno dato prova le belve del 7 Ottobre.
Il tedesco che avesse rivisto la famiglia dopo aver fucilato decine di ebrei, magari avrebbe sorriso accarezzando la testa dei figli per la buonanotte: ma se pure avesse avuto a disposizione un cellulare non avrebbe chiamato il babbo per raccontargli quanti ebrei aveva appena fatto a pezzi con le sue mani, e quel genitore probabilmente non avrebbe ringraziato Dio, lacrimando di gioia, perché gli aveva regalato un figlio di cui essere così orgoglioso. Quando i nazisti rastrellavano gli ebrei per portarli sui vagoni piombati, in quelle piazze, in quelle strade e ai margini di quei ghetti c’erano guarnigioni di cittadini voltati dall’altra parte e un buon numero di occhi abbassati davanti a quella scena: ma non c’era festa, non c’era il tripudio, non c’era la distribuzione di dolcetti che invece rallegravano i panorami mediorientali o, appena sottotono, le manifestazioni europee in cui, giusto qualche ora dopo, si ringraziavano gli eroi del 7 Ottobre che avevano “insegnato a tutto il mondo il significato di ‘resistenza’”.
Questo supplemento di ignominia, e il fatto che sia passato come il trascurabile corollario di una specie di incidente, hanno giocato un ruolo determinante negli ingranaggi intimi e di psicologia generale del mondo ebraico. Significava che a revoca esemplare di pluridecennali retoriche articolate su quello stracco “mai più” era possibile, ottant’anni dopo, che gli ebrei fossero uccisi in quanto ebrei; e che ci fosse tutt’al più qualche precaria deplorazione – ma neppure sempre – davanti o allo spettacolo dei macellai che celebravano quella vittoria fatta di bambini “sionisti” bruciati vivi, di cadaveri impalati e di donne che imploravano di essere uccise mentre subivano l’ennesimo stupro da quelli che poi avrebbero esaudito il loro desiderio finendole a coltellate. A far impazzire di dolore il popolo che ha patito tanta violenza c’era dunque, e continua a esserci, quest’altro: il vedere che in buona sostanza non importava nulla a nessuno; il vedere che nel pomeriggio del 7 Ottobre il problema era già un altro, già il solito, vale a dire la pretesa di Israele di esistere e la pretesa degli ebrei di non essere perseguitati e uccisi in quanto ebrei.
Pretese indebite, l’una e l’altra: perché l’una (il diritto di esistere di Israele) deve pur essere compatibile con diecimila missili ragionevolmente lanciati sui civili israeliani; e perché l’altra (il diritto degli ebrei di non essere perseguitati dopo millenni di persecuzioni) deve pur lasciare il posto a qualche comprensibile evento revocatorio giacché certe violenze, come insegna il Segretario Generale dell’Onu, davvero non vengono dal nulla. Sbaglierebbe gravemente, e anzi dimostrerebbe la gravità del problema, chi pensasse che tutto questo non abbia influito e non influisca per nulla nel determinare un sentimento di nuova solitudine presso gli israeliani e gli ebrei nel mondo. Solitudine cui si accompagnano, nello scenario del conflitto, l’insofferenza per il giudizio altrui e l’indulgenza per le proprie mancanze, tutto ciò di cui quotidianamente abbiamo grave evidenza e tragica conferma. Lasciati soli nella tragedia, fanno tragicamente da soli e tragicamente sbagliano. Ma requisitorie e reprimende da parte di chi li ha lasciati soli hanno davvero poco futuro di ascolto. Poco futuro e poco diritto
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