Qual è lo stato d’animo israeliano di fronte alla disapprovazione universale della loro guerra a Gaza che ha provocato decine di migliaia di vittime civili? Specialmente in Occidente ci si aspetterebbe un forte senso di colpa, almeno nelle componenti della sinistra politica israeliana. Ma non sembra che sia così. Al primo posto nei sentimenti di colpa in Israele, c’è l’angoscia per gli ostaggi e anche l’odio per Netanyahu che ha dato la priorità alla distruzione di Hamas. Ieri il primo ministro ha detto: “Tre quarti delle brigate di Hamas sono distrutte, ne manca una e poi avremo finito”. Ma i giornalisti israeliani lo inseguono: “E’ sempre disposto a scambiare prigionieri palestinesi in cambio degli ostaggi?”. Bibi Netanyahu tentenna, sorride e non dice un sì chiaro. I racconti dell’orrore degli ostaggi liberati ha inflitto all’intero Paese una certezza attuale: il 7 ottobre non è mai finito e ogni giorno i prigionieri e specialmente le sono picchiate e violentate. Questa attualità resta il primo dramma di Israele: riportare a casa i nostri cari, a qualsiasi costo, con qualsiasi scambio, qualsiasi azione militare.

C’è un punto nodale per decifrare Israele che riguarda la narrativa passata in Occidente secondo cui il 7 ottobre del 2023 Hamas compì un’operazione violentissima, sia militare che terroristica e poi tornò a Gaza portandosi dietro circa duecento esseri umani molti dei quali morirono. Israele, da quel momento ha scatenato una rappresaglia che presto si è dimostrata inutile e crudele contro gli abitanti di Gaza, gli ospedali, scuole e le case di Gaza accanendosi su una popolazione civile inerme costretta a vagare su e giù per i quaranta chilometri della Striscia senza mai trovare ristoro, medicine, sicurezza. E dunque non siamo di fronte a una rappresaglia proporzionata agli atti terroristici che tutti hanno condannato, ma al tentativo di distruggere un popolo e quindi, come ha sostenuto il Sud Africa davanti al Tribunale dell’Aja, di fronte a un genocidio. Non un solo israeliano accetta questa versione e anzi se ne sente ingiuriato e sdegnato.

Le due anime politiche degli israeliani

Gli abitanti di Israele, compresi quelli che dimostrano in piazza contro Bibi Netanyahu si sentono oltraggiati dalla versione che è stata avallata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che ha condannato Israele senza fare il minimo cenno a quel che realmente accadde e ancora accade. Soltanto il Tribunale dell’Aja sotto la pressione dei legali di Israele ha riconosciuto in maniera sbrigativa che il racconto è un altro e che contiene ciò che realmente accadde il 7 ottobre del 2023.
In una conferenza dall’Università di Tel Aviv ieri si sosteneva che gli ebrei israeliani hanno due anime politiche: una è quella liberale assorbita negli Stati Uniti a partire dalla metà dell’Ottocento quando si sentirono dire per la prima volta che non erano stranieri ma cittadini con pari diritto e ciò accadde fin nel 1790, quando arrivarono i primi fuggiaschi dai pogrom russi. Quegli ebrei diventati americani, accolsero con entusiasmo l’identità di chi fa parte di una democrazia liberale. Ciò ha dato l’impronta democratica liberale a Israele che è anche l’unico Paese in cui due milioni e mezzo di arabi hanno il diritto e combattono democraticamente contro lo Stato in cui sono nati, ma nel quale tutte le bambine arabe musulmane sono obbligate ad andare a scuola come tutte le altre bambine, quando in nessun altro Paese arabo musulmano esiste l’obbligo dell’istruzione alle donne. Questo dell’istruzione delle donne – si diceva nella lunga lezione – è un punto fondamentale per capire il significato, benché mostruoso di quel che accadde il 7 ottobre e che non avrebbe mai potuto essere compensato con una proporzionata rappresaglia.
Quel che accadde quel giorno, fu una spedizione punitiva contro le donne, i loro organi genitali, i loro seni, i loro neonati, i loro bambini in grado di camminare. Le donne israeliane aggredite da Hamas non furono soltanto violentate ma furono torturate con un odio particolare per il corpo delle donne.
Tutto ciò non può essere liquidato soltanto come barbaro terrorismo, ma configura il vero messaggio inviato da Hamas: che nessuno più nasca e che tutti muoiano dalla riva del Giordano a quella del mare. Questo punto centrale e perverso dell’attacco a Israele è stato ignorato o ridotto a una questione di parità di numeri: troppi morti per vendicarne pochi.

L’altra metà dell’identità ebraica, si diceva nella lezione, è quella della tribù. Ebrei, arabi, cristiani creano grandi famiglie e le famiglie formano una tribù in cui risiede un sentimento condiviso con gli altri popoli del Medio Oriente, dai musulmani ai cristiani, dai drusi alle altre minoranze. Gli israeliani di fronte a un evento apocalittico e non soltanto crudele ma genocida come quello del 7 ottobre, reagiscono raggruppandosi immediatamente nelle tribù del popolo e delle comunità che normalmente sono nemiche.
Hamas, secondo questa scuola di pensiero, aveva progettato il suo attacco biblicamente genocida al preciso scopo di imporre la reazione israeliana che poi tutto il mondo avrebbe trovato criminale. Tutto era pronto con i tunnel sotto le scuole e gli scudi umani sopra, negli ospedali, sotto i palazzi di abitazioni, ovunque ci siano civili. Le conseguenze, non avrebbero potuto che essere quelle che conosciamo.
Ma in più, le Nazioni Unite nei loro documenti ufficiali si sono rifiutate di dare alcun peso alla macelleria del 7 ottobre in cui ogni essere umano fu scelto e ha vissuto nel terrore sacrificale la sua agonia. Questa ferita nel ricordo e nelle proporzioni ha unito gli ebrei al punto che il politico più di sinistra negli Usa, Bernie Sanders di famiglia ebrea ucraina, si è rifiutato di affiancare Biden nella sua condanna al governo israeliano.

 

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.