Accadeva 70 anni fa
Storia della legge truffa e della più feroce delle battaglie parlamentari
Chissà quanti voti riuscì a spostare, 70 anni fa, l’idea allora modernissima di ribattezzare la riforma elettorale imposta dalla Dc “legge truffa”. Forse pochi ma anche se si trattasse solo di 55mila voti su un totale di 28 milioni e mezzo di votanti alle elezioni politiche del 7 e 8 giugno sarebbe sufficiente. La nuova legge elettorale imposta dalla Dc e dai suoi alleati non produsse i suoi effetti per uno scarto di appena 54mila schede.
Tante ne mancarono alla coalizione assemblata dalla Dc per superare il 50% e ottenere così, automaticamente, il 65% dei seggi. Si fermò al 49,8%. Era un premio di maggioranza, però abnorme e a maggior ragione all’epoca quando era dato quasi ovunque per scontato, non solo in Italia, che il metodo giusto per costituire una corretta rappresentanza democratica fosse un proporzionale quasi puro. La paternità della geniale formula è incerta. C’è chi sostiene trattarsi di Giancarlo Pajetta, tipo caustico, e chi di Piero Calamandrei. Probabilmente qualcuno si limitò a tradurre in italiano l’espressione loi scélérate, adoperata due anni prima in Francia proprio per bollare una legge elettorale.
Ma non è escluso che si sia trattato di un autogol e che il primo a coniarla sia stato un democristiano. Segnatamente l’allora ministro degli Interni Mario Scelba la cui prima reazione sarebbe stata, secondo Indro Montanelli, profetica: “Buona idea ma verrà chiamata ‘truffa’ e noi saremo i truffatori”. Proprio Scelba accettò poi di presentare la proposta di legge, composta da un solo secco articolo. In realtà nella Dc le resistenze alla riforma voluta da Alcide De Gasperi erano numerose e robuste. Il leader s’impose, nonostante il rischio di una vittoria delle sinistre fosse, a differenza che nel 1948, considerata impossibile. Ma le paure dell’allora presidente del consiglio erano altre. Nel 1948 la Dc aveva ottenuto, da sola, il 48,5% dei consensi. Ma all’inizio del nuovo decennio il vento era meno prospero.
Le amministrative del ‘50 e del ‘51 avevano registrato un calo secco della Dc. A Napoli una coalizione di destra guidata dall’armatore monarchico Achille Lauro aveva conquistato il comune. Il rischio di doversi alleare, dopo le elezioni, con i partiti di estrema destra era concreto tanto più che il Vaticano aveva già esercitato pressioni massicce perché quell’alleanza si formasse già nelle comunali e sarebbe certamente tornato alla carica in caso di esito incerto delle elezioni politiche. De Gasperi considerò probabilmente il premio di maggioranza anche uno strumento per bastonare il Pci, rassicurando così Washington che insisteva per la messa fuori legge dei comunisti.
Il leader della Dc sapeva che una mossa del genere avrebbe esposto il Paese al rischio della guerra civile ma anche nel suo partito non mancavano pressioni identiche a quelle di Washington, guidate proprio da Scelba. Ridimensionare drasticamente la rappresentanza parlamentare del Pci avrebbe risolto in buona parte il problema. La legge fu presentata nell’ottobre 1952, la si iniziò a discutere in dicembre alla Camera. L’ostruzionismo del Pci, allora non regolamentato e dunque virtualmente illimitato, fu durissimo e paralizzò l’iter. Il 14 gennaio il governo decise di sbloccare la situazione ponendo la questione di fiducia. La decisione di mettere la fiducia su una legge elettorale era una forzatura quasi inaudita tanto che solo sessant’anni dopo un governo, quello di Renzi, avrebbe tentato di nuovo l’azzardo.
Le manifestazioni di fronte Montecitorio finirono a botte con la polizia, all’interno dell’aula lo scontro fisico fu quasi altrettanto duro con i fratelli Pajetta che, divelti i braccioli delle poltroncine li usarono come bastoni menando come fabbri. L’ingresso in aula dell’allora direttore dell’Unità Pietro Ingrao, manganellato di brutta e sanguinante in fronte, fu tanto teatrale quanto drammatizzante. Togliatti però non voleva affatto scatenare la piazza. A uno dei politici più lucidi della storia italiana certo non sfuggiva che una mezza insurrezione avrebbe offerto agli Usa e a Scelba un appiglio prezioso per mettere il Pci fuori legge, cogliendo anche l’occasione dello smarrimento seguito alla morte di Stalin, il 5 marzo. Probabilmente la scelta di alzare al massimo la tensione nell’aula del Senato servì anche a non far apparire arrendevole il partito pur evitando di incendiare le piazze.
L’aula di palazzo Madama, invece, si arroventò come mai prima né dopo quella seduta del 29 marzo, domenica delle Palme. Il presidente del Senato Paratore si era dimesso il giorno prima per protesta contro la decisione del governo di porre anche al Senato la questione di fiducia. Lo sostituì Meuccio Ruini, politico dell’epoca prefascista, che restò in carica per un solo giorno. In aula volarono insulti pesanti, quelli di Pertini all’indirizzo di Ruini. Volarono schiaffoni, quelli di Emilio Lussu a Ugo La Malfa. Volarono suppellettili e pesanti volumi d’ogni tipo, inclusi quelli che ferirono alla testa Ruini. Il governo abbandonò l’aula di corsa, lasciando solo il giovane sottosegretario Giulio Andreotti a presidiare le posizioni. L’arrembaggio alla presidenza fu degno della Tortuga e impegnò a lungo i commessi. Alla fine la legge fu approvata. Il giorno dopo le Camere furono sciolte e le elezioni convocate per il 7 giugno. La coalizione grazie alla quale la Dc puntava a superare il fatidico 50% era composta da Psdi, Pli, Pri, Sudtiroler Volkspartei e Partito sardo d’azione.
La campagna elettorale non poteva che essere tesissima e infatti lo fu. L’ambasciatrice degli Usa Claire Boothe Luce, appena nominata da Eisenhower come saldo per il prezioso aiuto ricevuto in campagna elettorale dal marito Henry Luce, l’editore di periodici come Time e Fortune, partecipò alla campagna a modo suo. Anticomunista tra le più esagitate minacciò pubblicamente la messa fuori legge del Pci in caso di mancata vittoria della Dc. Quella vittoria non arrivò per un pelo, in buona parte grazie ai dissidenti dei partiti della coalizione guidata dalla Dc. Nomi di grandissimo peso come Ferruccio Parri e Piero Calamandrei diedero vita a una lista, Unità popolare, mentre i dissidenti del Pli costituivano a loro volta una lista ribelle, Alleanza Democratica Nazionale.
Insieme tolsero al listone della Dc i voti necessari per superare il traguardo, pur arrivando a un soffio dalla vittoria. Con 900mila schede annullate la Dc avrebbe potuto chiedere il riconteggio. De Gasperi scelse di non farlo, sapendo che a quel punto lo scontro di piazza violentissimo con il Pci sarebbe stato inevitabile. La rotta di Alcide De Gasperi non si limitò alla mancata conquista del premio di maggioranza. La Dc perse l’8,4% dei voti: un calo in una certa misura inevitabile, dal momento che era venuto meno l’effetto di polarizzazione che aveva gonfiato le vele dello scudo crociato cinque anni prima, ma superiore a ogni aspettativa.
Persero parecchi voti anche tutti gli altri partiti della coalizione. Pci e Psi migliorarono le posizioni con 35 seggi in più. La destra decollò: i monarchici passarono da 14 a 40 deputati, il Msi da 6 a 29 seggi. Dopo le elezioni De Gasperi tentò di formare un governo monocolore Dc. Fu battuto in aula e abbandonò la politica. L’idea di premio di maggioranza fu silenziosamente sepolta.
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