«Nel comporre storie dei nostri tempi, le passioni alterano la verità»? È l’interrogativo che si pone Benedetto Croce nel corso di una conversazione tenuta agli allievi dell’Istituto italiano per gli studi storici. Non si tratta di perseguire la assurda liberazione dell’animo umano dalle passioni né di discacciarle, concludeva il filosofo, ma di convertirle in virtù. Oggi è possibile una riflessione appassionata e insieme laica e critica sulla figura di Enrico Berlinguer a cento anni dalla nascita e sulla politica del Pci negli anni della sua segreteria. Laica perché libera la figura di Berlinguer da forme di sacralizzazione che lo hanno ridotto a una icona, critica perché fa emergere i limiti della cultura politica del segretario del Pci protagonista dell’estremo tentativo di «tenere in vita una tradizione politica che si stava disfacendo in quanto aggredita nelle sue fondamenta sia sociali che ideologiche». In quel tentativo si incarnano il suo prestigio e la sua tragicità.

Per i comunisti, il compromesso storico era lo sbocco di tutta la storia precedente del partito. La stessa vittoria elettorale del ‘75/’76 fu interpretata come qualcosa che veniva da lontano, il risultato di un lungo processo politico. Quella politica fu intesa dall’intero gruppo dirigente come la continuazione e lo sviluppo della linea di unità democratica. Occorreva riprendere il filo spezzato nel 1947 dalla guerra fredda e puntare a una nuova tappa della rivoluzione democratica e antifascista. Il compromesso storico non costituiva la risposta provvisoria a una situazione contingente ma una scelta che dava una forma definitiva al futuro politico del Paese. Berlinguer portava alle ultime conseguenze la tradizione togliattiana. Per Aldo Moro, il suo interlocutore nella Dc, l’unico elemento chiaro era preservare l’unità e la forza della Democrazia Cristiana. Qualunque sviluppo della vicenda politica italiana aveva come condizione per Moro che la Democrazia Cristiana restasse unita. Lo disse con chiarezza: «L’intesa con il Partito Comunista è compatibile con i vincoli internazionali dell’Italia, solo se la Dc conserva il suo ruolo di guida e di garanzia». Moro avvertì la necessità di un diverso tipo di rapporto con il Pci ma escludeva che la evoluzione della vicenda politica potesse muovere nella direzione auspicata da Berlinguer. La sua era «una manovra tattica accorta e intelligente che non comportava accordi di lungo periodo».

In realtà, il compromesso storico costituì il tentativo estremo del Pci di assumere il ruolo di forza di governo senza un ripensamento di fondo del proprio impianto ideologico e sarà la spia della difficoltà del Pci ad acquisire una visione della democrazia come dialettica di schieramenti alternativi in un quadro istituzionale comune.
Il retroterra culturale della proposta di alternativa avanzata dal Pci nel novembre del 1980 era lo stesso che aveva sorretto il compromesso storico: l’alternativa non era la proposta di uno schieramento politico e sociale che si candidava alla direzione del Paese in opposizione a quello guidato dalla Dc. Essa nasceva da una lettura pessimistica della società italiana che si riteneva investita da una crisi storica e dalla denuncia di una questione morale che si configurava come una emergenza democratica. Posta in questi termini, la proposta suscitava la netta contrarietà dei socialisti per i quali si risolveva nel passaggio dalla egemonia della Dc a quella del Pci. Berlinguer avvertiva che un’alternativa di governo avrebbe inevitabilmente richiesto una profonda trasformazione del partito, del suo ruolo, della sua identità. Una prospettiva che egli volle scongiurare.

Non sfuggirà al segretario del Pci il manifestarsi dei segni di un corrompimento della vita pubblica e farà di questo tema, con lungimiranza che deve essergli riconosciuta, uno dei motivi dominanti della sua battaglia negli ultimi anni di vita. Non riuscirà tuttavia a indicare una strategia politica in grado di dare una risposta praticabile ed efficace al vero problema all’origine dei fenomeni di degenerazione della vita pubblica e di invadenza dei partiti: un sistema politico da quarant’anni privo di alternanza. Da questa contraddizione il Pci non verrà fuori. Fu estranea al pensiero di Berlinguer l’idea di una trasformazione del sistema politico italiano in senso bipolare per consentire un meccanismo di alternanza nella vita del Paese. Prevalse la convinzione che fuori dall’assetto politico istituzionale entro cui si era sviluppato nel dopoguerra il Pci avrebbe rischiato la marginalizzazione.

Dopo l’esperienza della solidarietà nazionale, come osserveranno Pietro Scoppola e Giovanni Sabbatucci, il Pci, per candidarsi al governo, non ha più bisogno di un assetto consociativo. Il suo ruolo di governo non dipende da una legittimazione esterna ma dalla sua capacità di costruire, sulla base di un convincente programma, uno schieramento politico maggioritario. È questa la via per sbloccare la democrazia italiana. Per guidare la formazione di uno schieramento alternativo di governo il Pci avrebbe dovuto condurre alle estreme conseguenze la revisione ideologica. Qui si apriva la contesa nel Pci tra miglioristi (ancora non venivano definiti tali) e Berlinguer. Il Pci avrebbe dovuto trasformarsi, sulla base di un ripensamento ideale e culturale, in una forza socialdemocratica. Questa, nella sostanza, la posizione dei riformisti che, pur tra incertezze e contraddizioni, delineava una possibile alternativa alla linea berlingueriana. In realtà il Pci ritenne sempre di compiere il rinnovamento politico e culturale nel segno della continuità. Il nuovo si aggiungeva e sovrapponeva al vecchio lasciandolo sussistere.

Il risultato fu un impasto spesso contraddittorio e fonte di ambiguità. Alla affermazione fatta nel corso di una conferenza stampa televisiva sotto l’incalzare degli avvenimenti polacchi, che si era esaurita la spinta propulsiva dell’Ottobre, si accompagnò il rilancio della strategia della “terza via”. In quella stessa conferenza Berlinguer aggiunse che «gli insegnamenti fondamentali che ci ha trasmesso prima di tutto Marx e alcune delle lezioni di Lenin conservano una loro validità». Il segretario del Pci è ancora convinto che il comunismo sia da riformare e sia riformabile. Era il 1981. Berlinguer sembra dire ai militanti che la critica del socialismo reale non significa che si diventi socialdemocratici. Ricordo ancora l’impressione che fecero su di me, giovane segretario regionale di una regione del Sud, le parole di Berlinguer alla riunione del Comitato centrale dopo le elezioni politiche (ed europee) del 1979 in cui il Pci subì la prima sconfitta elettorale del dopoguerra. Berlinguer sostenne che il Pci non era una socialdemocrazia che si danna per qualche punto in più o in meno alle elezioni (ne avevamo persi ben quattro!). Noi eravamo il partito comunista! Un solo dirigente della generazione più giovane in quella fase sostenne una linea alternativa a quella di Berlinguer: fu Riccardo Terzi alla cui intelligenza politica vorrei rendere omaggio.

La preoccupazione di Berlinguer che lo strappo con l’Urss potesse essere vissuto come un cedimento fu talmente assillante che nel messaggio per il nuovo anno, su l’Unità del 31 dicembre di quel 1981, parlerà di decrepitezza della cultura riformistica, tuonerà contro il fallimento del riformismo che resterebbe per sua natura subalterno al capitalismo e concluderà con un richiamo alle virtù della diversità comunista in contrasto con i vizi e i mali altrui. Berlinguer non percepì la portata delle novità che stavano cambiando il mondo e il capitalismo. Le note e gli appunti di Tonino Tatò pubblicati da Einaudi restituiscono un universo concettuale in cui a colpire non è tanto la sopravvivenza di mitologie della tradizione comunista quanto l’emergere di una rappresentazione del mondo che mostra di non cogliere ciò che va maturando. Il capitalismo usciva dalla lunga crisi degli anni Settanta in forme destinate a mutare le caratteristiche di fondo della economia internazionale mentre al vertice del partito, era dominante la convinzione che fosse in atto una degenerazione della società occidentale.

Del resto, in un’altra famosa intervista, quella rilasciata a Scalfari il 28 luglio del 1981, Berlinguer sostenne che si dovesse «discutere in quale modo superare il capitalismo… esso oggi sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui al fondo la causa non solo dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione». Insomma per Berlinguer il capitalismo era responsabile nientedimeno che del “male di vivere”! Eccessi ideologici che alimentavano miti e velleità. Mentre si proclamava la prospettiva dell’alternativa si accentuava nel corpo del partito una larghissima diffidenza verso i socialisti. In questo clima maturava la bruciante sconfitta alla Fiat. Una condotta politica che avrebbe fornito argomenti al Psi per ritornare alla collaborazione con la Dc.

La sua eredità non fu lieve, dal referendum sulla scala mobile la cui sconfitta determinò il mutamento profondo negli equilibri politici alla fatica che comportò per il Pci aprirsi all’idea di riforme istituzionali, all’illusione che resistette a lungo, soprattutto dopo l’arrivo di Gorbaciov, di una ripresa del comunismo come cultura politica e come sistema. E tuttavia, al di là di qualunque disaccordo, la mia generazione non può non serbare riconoscenza verso Enrico Berlinguer: in anni critici della storia dell’Italia repubblicana, quando erano in molti coloro che dichiaravano di non tenere né per lo Stato né per le Brigate rosse, montava la violenza e suggestioni estremiste si diffondevano tra i giovani egli fece del Pci un argine a questa ondata distruttrice. Né va smarrito, in un mondo politico che sembra usare la parola come elemento di manipolazione, la sua lezione di sobrietà, il rifiuto di ogni affabulazione, l’alto senso di responsabilità verso il Paese.