Gianni Cuperlo, presidente della Fondazione Pd e membro della Direzione nazionale dei dem, non si sottrae al dibattito avviato da Il Riformista con un editoriale di Piero Sansonetti. E poi non è un “battutista”, ma sa usare l’arte dell’ironia, anche su se stesso, uno che argomenta le proprie posizioni, usando buone letture.

“Letta e Conte hanno firmato un “patto”: primarie comuni a partire dalla Sicilia. È un “matrimonio d’interessi” o, per usare una vecchia formula, una “fusione a freddo” nella quale la sinistra rischia di annullarsi?
Se guardo alla Sicilia in questo momento il primo pensiero è che ancora una volta siamo dinanzi al pericolo del “morto che afferra il vivo”. Le alleanze che la destra senza alcuno scrupolo, neppure di immagine, ha costruito nel voto amministrativo di Palermo con la scelta di restituire visibilità e peso politico a figure pesantemente compromesse con un passato neppure remoto dice come sia responsabilità nostra, del PD, e più in generale del campo democratico e progressista offrire un’alternativa solida, trasparente e credibile. Lo stiamo facendo a Palermo con la candidatura di Franco Miceli e nelle altre realtà dove si vota, vogliamo poterlo fare anche a livello regionale attraverso un percorso condiviso di forze e movimenti, personalità, che rifiutano di precipitare nel passato peggiore. Per questo non userei la formula “matrimonio d’interesse” e neppure “fusione a freddo”, preferisco immaginare una strada comune della sinistra e di quelle risorse civiche che in questi anni non hanno ceduto all’idea di una Sicilia condannata a rimanere sotto il tallone di potentati opachi e compromissioni con la rete delle mafie e degli interessi criminali. In questo senso le primarie possono essere un’occasione straordinaria di attivazione delle risorse e delle energie disponibili da coinvolgere in una battaglia che certamente appare difficile, ma che insieme possiamo affrontare e vincere.

In passato, lei non ha risparmiato critiche a quella non cultura politica che ha caratterizzato, con la sua carica antisistemica e populista, l’affermarsi dei 5Stelle. Conte ha compiuto il “miracolo”, se tale può essere considerato, di istituzionalizzare i pentastellati?
Giuseppe Conte ha guidato due governi nel corso di questa legislatura, il primo assieme alla Lega, l’altro col pieno coinvolgimento, tra gli altri, del Partito Democratico e di LeU. La stagione di governo con Salvini ha prodotto alcune scelte radicalmente sbagliate e in conflitto con i principi di uno Stato di diritto, penso ai decreti in materia di sicurezza e migranti. Il secondo governo Conte ha dovuto affrontare la più grave emergenza sanitaria della storia repubblicana. Penso che lo abbia fatto assumendo decisioni tutt’altro che semplici a partire dal primo severo lockdown, ma quelle scelte hanno consentito di gestire un pericolo senza precedenti. Aggiungo che lo ha fatto contribuendo a ottenere dall’Europa la svolta del Next Generation EU, quel piano straordinario di investimenti, parte a prestito e parte a fondo perduto, che consente oggi al governo Draghi di programmare riforme attese da decenni. Ricordo questi passaggi perché se ripercorriamo gli anni alle spalle, compresi limiti ed errori di quel movimento, non possiamo negare una evoluzione della sua cultura politica e di governo. Non era scontato per una forza uscita vincente dalle elezioni del 2018 sulla base di una piattaforma che contestava l’Europa e rivendicava un approccio “populista” alla soluzione dei conflitti aperti. L’esperienza del governo ha accelerato una maturazione proprio su quel versante, lo considero un fatto positivo non già e soltanto per una parte, ma per la qualità della nostra democrazia. Detto ciò non parlerei di un “miracolo” di Conte, ma della necessità per chiunque si misuri con la prova del governo di accantonare approcci superficiali o primitivi alla gestione di problemi che per definizione rivendicano una loro complessità e che non si possono mai ridurre a slogan. Personalmente mi auguro che questo processo si consolidi e tutto sommato vedo anche nella dialettica interna a quel movimento un passo in quella direzione, il che non significa condividerne tutte le espressioni e posizioni, ma riconoscere la scelta di campo nel centrosinistra che la leadership di Conte ha affermato senza ambiguità.

Il 25 maggio è stato il centenario della nascita di Enrico Berlinguer. C’è ancora qualcosa del suo pensiero nella sinistra, e nel Pd, oggi?
Mi ha colpito la grande attenzione che ha accompagnato quell’anniversario, il rispetto e l’affetto verso una figura scomparsa quasi quarant’anni fa e che ha guidato un partito che ha smesso di esistere più di trent’anni fa. Non credo che alla radice di questo sentimento vi sia stata la nostalgia per quel tempo storico, penso che la spiegazione stia piuttosto in ciò che è mancato dopo la fine di quel partito e la scomparsa di quel leader. Nei dodici anni della sua segreteria Berlinguer ha avuto una sola strategia, declinata in maniera diversa nella prima e seconda metà del decennio, e quella strategia era approssimare il più possibile i comunisti italiani all’esercizio di una responsabilità nel governo nazionale del paese. Non c’è dubbio che dopo la rottura del 1947 lui sia stato il leader che più si è avvicinato a quel traguardo senza però riuscire a oltrepassarlo. Diciamo che ha avuto una sola strategia e un solo vero interlocutore nella Democrazia Cristiana nella persona del suo presidente, Aldo Moro. Il sequestro e l’uccisione di Moro segnarono, dunque, anche la fine di quel processo e le scelte successive della DC e di Craxi preclusero al PCI la via del governo. Ma fu esattamente in quella stagione, dopo il 1980, che Berlinguer scelse con coraggio di ricollocare il patrimonio di consenso che ancora caratterizzava quel partito, un italiano su tre votava comunista, nel tempo storico successivo offrendo una prospettiva inedita e che parlava in modo particolare alla generazione più giovane. È la stagione che vede i comunisti aprire un dialogo con i movimenti, per la pace, l’ambiente, il pensiero femminista, la nuova stagione dei diritti civili e per la libertà della persona. Quella fu una semina fondamentale che però non ha trovato negli anni e decenni successivi una eredità all’altezza. Il Partito Comunista sarebbe scomparso qualche anno più tardi con la “svolta” di Occhetto e da lì in avanti il tema del governo, dell’accesso al governo, avrebbe posto ai margini molte delle tematiche che avevano caratterizzato l’elaborazione avviata da Berlinguer negli ultimi anni di vita. Ecco, credo che in questo scarto ci sia anche la ragione dell’attenzione, del rispetto, dell’affetto, che ancora oggi a tanti anni di distanza quella figura è in grado di esercitare e forse proprio in quel monito a non separare mai il pensiero dall’azione vive la sua eredità più preziosa. Oltre naturalmente a quella sobrietà e quello stile di vita e linguaggio che ne hanno contrassegnato l’intera esistenza.

“Dammi tre parole”, era il refrain di una canzone che impazzava diverse estati fa. Le chiedo: mi dà tre parole che definiscono la sinistra per Gianni Cuperlo?
Oggi direi pace, Europa, democrazia.

Siamo in tempi di guerra. Una guerra nel cuore dell’Europa. Il “che fare” per porvi fine è “altro” dalla definizione di schieramenti, alleanze, proposte politiche per le elezioni del 2023?
Credo e spero che tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, siano convinte oggi della necessità di arrivare presto a una tregua, un cessate il fuoco anche localizzato, e l’apertura di una vera trattativa. In questo senso penso che l’iniziativa assunta dal nostro governo abbia avuto il merito di premere sul resto dell’Europa e sugli Stati Uniti con una proposta che, al di là delle quattro tappe indicate, si caratterizza per un approccio multipolare con il coinvolgimento di tutti i principali paesi che possono esercitare una funzione positiva nel senso di favorire un dialogo tra Mosca e Kiev. Sappiamo che la prosecuzione del conflitto sul campo oltre a produrre altri lutti e devastazioni implica quella crisi alimentare che condannerebbe milioni di esseri umani alla fame con una ulteriore instabilità del continente africano e nuove possibili migrazioni di massa. La sola via da percorrere, quindi, è premere su Mosca con le sanzioni e, assieme, esercitando una pressione diplomatica affinché Putin receda dalla linea sciagurata intrapresa il 24 febbraio. Da questo punto di vista il lavoro dell’Europa una volta di più sarà decisivo e come ha detto il presidente Mattarella nel suo discorso al Consiglio d’Europa a Strasburgo poche settimane fa il compito è quello di giungere a una nuova Helsinki evitando l’incubo di una nuova “cortina di ferro”. Abbiamo ereditato un continente a lungo pacificato dopo le tragedie del ‘900, semplicemente non abbiamo il diritto di consegnare a chi verrà dopo di noi uno spazio di nuovo lacerato e diviso, preda di odi e minacce di un conflitto nucleare. L’iniziativa di Germania, Francia, Italia e Spagna in questo senso è oggi la carta fondamentale da spendere sapendo che un’alternativa non c’è e che aveva ragione Jean Monnet quando a metà degli anni Cinquanta spiegava che l’Europa si sarebbe fatta nelle crisi e sarebbe stata la somma delle soluzioni adottate per quelle crisi.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.