Non è certo l’allarme sulla degenerazione dei partiti, che occupavano in maniera rapace le risorse del pubblico potere e si svuotavano di ogni idealità, il fulcro della cultura politica di Berlinguer. Questa metamorfosi della forma partito, pure con decisione denunciata, ha per lui ragioni più profonde della corruzione del ceto politico. E proprio da ciò che non è visibile nella superficie bisogna cominciare l’analisi. Come i più rilevanti dirigenti della sua generazione, egli ragiona (lo impone la struttura stessa del pensiero comunista) sul nesso tra ordine del mondo e prospettive nazionali. Per un partito di origine esterna, cioè sorto sulla frattura dell’Ottobre, la dimensione internazionale è cruciale nella manutenzione dell’identità e nella decifrazione dei termini attuali del conflitto tra le classi.

Quello che si è soliti definire il “secondo Berlinguer” ha in realtà un assillo ideale che lo ricollega saldamente al nucleo persistente del suo modo di pensare la politica. L’esaurimento della spinta propulsiva del ’17 è percepito come un fenomeno dissolvente che in prospettiva può svuotare una tradizione. Se alla perdita della presa mobilitante del comunismo reale, come movimento internazionale di liberazione, si aggiunge anche l’impatto epocale della nuova rivoluzione conservatrice, appena sbocciata in America e Inghilterra, il quadro della disperazione teorica che attanaglia il leader sardo si percepisce in tutta la sua portata. Non solo l’Ottobre è un mito politico sempre più lontano dalle credenze collettive, ma certi legami di ferro, sorti in suo nome in tempi eroici, si rivelano un impaccio sulla via della legittimazione e l’oro di Mosca appare come un fardello non più sostenibile per ricoprire i costi della politica. Anche gli elementi di socialismo, che nel trentennio glorioso sono stati strappati dalle sinistre europee, vacillano sotto il fuoco espansivo del neoliberismo ormai egemone su scala mondiale.

Il “secondo Berlinguer” reagisce sì al fallimento della strategia di inserimento graduale nell’area governativa avviata dopo il 1976, quando si trattò di scongiurare che il fenomeno delle maggioranze negative (la somma dei seggi delle sinistre e dei missini rendeva impossibile qualsiasi governo) facesse precipitare Roma nelle vicinanze di Weimar. Ma la ripresa, dinanzi ai cancelli di Mirafiori, di una eccitante iniziativa conflittualistica, modulata dopo il tempo del negoziato e dell’attesa (che era passato con i costi della rottura del Pci con fasce di “seconda società” soprattutto giovanile), si intreccia ad una congiuntura mondiale che non lascia scampo alle antiche certezze. La svolta neoliberista sollecita aggiustamenti nelle categorie per parlare a nuovi soggetti e però, in attesa di categorie aggiornate, non resta che mobilitare le tute blu colpite dalle contraddizioni della società.

Il duello con Craxi, più che da asperità caratteriali, nasce da questa congiuntura epocale che vede declinate a sinistra due opposte letture della “modernità”. Craxi è un grande politico realista che anticipa di un decennio la metamorfosi identitaria che poi sarà effettuata, su basi programmatiche analoghe, anche dai laburisti e dalla Spd costretti, contro il declino del secolo socialdemocratico, a stringere un patto faustiano che, in cambio del ritorno al governo, richiede l’oblio dell’identità. Nel suo agire il leader socialista è stato una lepre che, più veloce di altri non solo in Italia, è riuscita ad afferrare il nuovo con categorie disincantate e soprattutto a competere, con una spregiudicata e per certi versi fascinosa abilità di manovra, per la conquista e la tenuta del potere. L’operazione di ridefinizione dei fini ideali riuscì perché il Psi, nel suo insediamento sociale, non era un partito operaio, come lo erano invece i modelli dei partiti di massa del socialismo europeo. La conquista di uno spazio rilevante nei ceti medi dinamici e nelle nuove figure professionali, emerse con la ristrutturazione tecnologica del capitale, facilitava per il socialismo craxiano l’abbandono di fette notevoli del corpo dottrinario e simbolico novecentesco.

La specificità della condotta di Craxi fu che egli saltò la fase della resistenza, che impegnò invece i vecchi socialisti europei, immersi in strenue battaglie difensive nelle fabbriche e nelle miniere, contro il nascente credo neoliberista, e si gettò in prima persona a promuovere dal governo l’erosione della antica coalizione lavorista. Su queste basi, nel segno cioè di una modernizzazione che postulava l’aggressione ai paradigmi neo-corporativi e al ruolo politico-legislativo del sindacato, nacque il lungo duello a sinistra conclusosi senza alcun vincitore.
In nome del moderno, Craxi attaccava la base sociale della sinistra in ritardo nella comprensione delle grandi trasformazioni, ma la sua ascesa elettorale non fu celere, perché un limite espansivo per il garofano fu la sempre ribadita alleanza con la Dc e la riverenza alla formula del pentapartito. Il male francese (mesto declino del Pcf al cospetto di un Ps più moderno nelle categorie politiche, e però unitario a sinistra, e capace perciò di assorbire i ceti intellettuali più rilevanti della gauche) per il Pci non si produsse.

A salvarlo dal contagio letale fu il monopolio della funzione di opposizione di sistema. Anche l’altra crepa, quella sociale, che vide il Pcf subire una perdita di radicamento (che portò alla sostituzione della sua leadership nella protesta tribunizia, che si orientava sempre più verso altri interpreti, con le “cinture rosse” espugnate dalla destra radicale), fu schivata grazie alla inopinata, e per certi versi antitogliattiana, torsione operaista che Berlinguer ordinò. Per non perire sotto i colpi di una lenta marginalizzazione sociale-mobilitante e politico-culturale, il Pci si arroccò a protezione dell’identità combattendo, oltre che sul piano del recuperato conflitto di classe (la sconfitta del referendum sulla scala mobile lo isolava, ma garantendo comunque una funzione di rappresentanza sociale), anche su quello del ripudio della omologazione delle forme politiche.

Con una sensibilità anche in questo caso poco togliattiana, Berlinguer difese lo spazio vitale del partito con una mistica della “diversità” che esaltava l’eccezionalismo comunista e lo splendido isolamento, accarezzato anche con iniezioni di antipolitica necessarie per raffigurare i partiti avversari (ma soprattutto i potenziali alleati nella “alternativa democratica”) come degli indifferenziati cartelli di potere. Finché è vissuto Berlinguer, il Pci ha rintuzzato colpo su colpo i segni del declino schizzando oltre la sintesi togliattiana con i ritrovati di una contaminazione volontaristica (cultura dei movimenti, della differenza, dell’ambientalismo, della pace) e con un ripiegamento sociale (neo-operaismo). La corazza identitaria però urtava con i fenomeni oggettivi di deindustrializzazione che svuotavano la base della protesta operaia e nelle urne restringevano il voto di classe. E soprattutto la fortezza della diversità non reggeva dinanzi alla crescita del partito degli amministratori, al ruolo del consenso strutturato grazie al successo straordinario dei modelli economici regionali prodotti con i giganteschi fenomeni della cooperazione, delle assicurazioni, al mutamento antropologico dei nuovi quadri, con la sete governista e di spartizione del potere che alimentava i sogni di ascesa dei cinici “ragazzi di Berlinguer”.

Nessuno dopo Berlinguer, né la sensibilità migliorista attenta ai tempi della politica né quella movimentista curiosa per le forme di una alternativa di società, avrebbe potuto mantenere la sintesi, precaria ma unitaria, che egli aveva costruito negli anni ’80 andando anche oltre il quadro teorico del “moderatismo togliattiano”. Con il mito di un capo che si sacrificava tragicamente nella piazza di Padova, esplodeva la sintesi che era, per così dire, tutta racchiusa nel corpo di un leader che era riuscito a saldare una discesa nelle pieghe del sociale e una inebriante esaltazione della diversità, che nella sua grammatica e nelle potenzialità conteneva anche una indubbia venatura antipolitica. Senza la connessione sistematica con i lineamenti di una critica dell’economia politica neoliberista, il grido contro la deriva dei partiti culmina, è un fatto di esperienza, nel populismo della società civile che abbatte le forme della mediazione politica.

Oggi Berlinguer nulla può dire alla politica italiana perché nessuna forza parlamentare rilevante ha una qualche ispirazione socialista. Quello che il suo messaggio può ancora trasmettere riguarda invece le forze europee. Mantenere un legame di classe (anche in Italia le coalizioni di centrosinistra hanno vinto solo dopo l’onda d’urto di intense mobilitazioni sociali-sindacali che hanno prodotto crepe nella composita coalizione berlusconiana) e una idea di rinnovamento delle forme della politica è per la sinistra la ricetta indispensabile per resistere e rilanciare una nuova offerta dopo la grande crisi del 2008 (che ha spezzato il paradigma economico contro il quale il leader comunista aveva ingaggiato un corpo a corpo irriducibile). Le sinistre dei valori e dei buoni sentimenti distribuiti tra i ceti medi riflessivi sono state travolte dalla rabbia populista e sovranista che, con il giustizialismo o la rivolta antipolitica, raccoglie una crisi di rappresentanza (del lavoro) e una crisi di legittimazione (della politica).

I problemi più urticanti sono gli stessi degli anni ’80, quando una nuova corrente del liberismo trionfava nelle culture, negli interessi sociali e nelle organizzazioni politiche. Ora che quel modello è in declino nelle idealità e in difficoltà appare anche nelle forme del potere, minacciando persino in America i baluardi storici del costituzionalismo, rimane aperta la sfida di cercare, anche con Berlinguer, soluzioni nuove a problemi antichi. Governare con la lente di una moderna critica del capitalismo, questo è il nodo originario che resta sempre da sciogliere a sinistra e in tale ottica non è vero che l’ultimo Berlinguer sia un puro residuo di archeologia passatista. Con strumenti di azione antichi, egli ha combattuto un nemico dal volto nuovo, un dominio di classe dalle radici profonde e capace sempre di esibire inedite maschere. Se declina una esigente idealità socialista, a subire l’eclisse è anche la forma storica di democrazia, che non può certo essere salvata dai simulacri di partito affiorati nei tempi di un’antipolitica che si è fatta sistema.