Nella sua riflessione (uscita sabato sul Riformista) Fabrizio Cicchitto si interroga sulle ragioni della conversione al giustizialismo da parte dei comunisti. Ne indica due. La prima conduce alle relazioni intessute da Violante con alcune grandi procure, viste come il motivo che spiegherebbe una certa benevolenza dei magistrati verso le pratiche illecite di reperimento di denaro compiute anche dai vertici di Botteghe Oscure. Più interessante, rispetto a questo tasto polemico nel quale si avverte ancora la ferita aperta per la incidenza delle manette nella uccisione del Psi, è l’altro che coglie l’impatto di alcuni mutamenti intercorsi nella cultura politica del Pci già ai tempi di Berlinguer.

Non c’è dubbio che una distanza si avverte tra il primo Berlinguer, regista di una clamorosa espansione elettorale del Pci, e il leader che nei primi anni ’80 deve gestire una ritirata strategica che non riguardava solo la sinistra italiana. Uno dei punti più elevati della cultura politica di Berlinguer si può rintracciare nell’importante comitato centrale del giugno 1974, nel corso del quale egli riservò alcune bacchettate a Terracini, Longo, Spriano (su questo snodo ha richiamato l’attenzione G. Crainz, Il paese mancato, Roma, 2003, p. 495). In discussione era la recente legge sul finanziamento pubblico dei partiti e Umberto Terracini pronunciò un intervento durissimo nel quale (era ancora fresca la strage di Brescia) chiedeva lo scioglimento per decreto del Msi, senza attendere alcuna pronuncia dei tribunali. Inoltre egli si scagliava contro i soldi statali alle organizzazioni politiche. «Non c’è giustificazione che valga a tacitare lo stupore esterrefatto popolare», disse, dinanzi a «un provvedimento in sé impopolare» come quello della destinazione dei fondi del contribuente ai movimenti politici (comprese le formazioni neofasciste).

Anche Paolo Spriano concesse qualcosa alle istanze anti-partito dell’epoca asserendo che «se è vero che il termine classe politica è un termine di confusione e di mistificazione» occorreva tuttavia delineare una partecipazione di massa che andasse ben oltre «le rappresentanze tradizionali di partiti». Di altro segno erano le parole di Napolitano che, come risposta alle degenerazioni della politica, anticipò il tema delle «modifiche istituzionali che possono essere necessarie per superare la crisi di funzionalità del regime democratico». La replica di Berlinguer stigmatizzò come «puramente demagogica» l’ostilità di Terracini al finanziamento pubblico dei partiti. Molto nitide furono le sue connessioni tra autonomia della politica dai poteri privati (anche grazie alla copertura finanziaria pubblica dei costi della politica) ed effettiva moralizzazione della vita democratica. «Al di là della cortina fumogena di tutte le ipocrite prediche moraleggianti sulla classe politica», Berlinguer invitava a valorizzare, anche con i riconoscimenti economici necessari, la funzione democratica e costituzionale dei partiti.

Tra queste drastiche censure alla demagogia antipolitica e le parole, quasi da precursore di Travaglio, riportate nell’intervista a Scalfari sette anni dopo c’è un abisso. Forse aveva ragione Ferrara ad avanzare qualche dubbio sulla fedeltà della trascrizione. Comunque non era giustizialista il senso ultimo della diversità berlingueriana. Si trattava di un retaggio terzinternazionalista, presente anche in Togliatti o in Amendola, che lo coniugava con il rigorismo etico della destra storica, e che coincideva con il mito del partito, con l’intransigenza morale della militanza rivoluzionaria (“una scelta di vita”). E, più che ai tribunali, l’ultimo Berlinguer guardava alla fabbrica. Con un solco scavato rispetto al realismo totus politicus togliattiano, scendeva sul piano del sociale ed evocava «un movimento di massa che spontaneamente esprime l’animo popolare e la coscienza di classe».

È solo con la caduta dell’identità comunista che la diversità assumerà i colori del nuovismo e del giustizialismo raccattati nel mercato delle idee come surrogati dell’ideologia archiviata. Occhetto fece la scalata alla leadership con un impianto neocomunista che alludeva «ai vari salti qualitativi e non alle semplici correzioni miglioriste». Caduto il Muro, il vuoto identitario venne riempito con una tattica movimentista che collocava la Quercia vicino alle toghe e ai gruppi referendari. Scartata la via della ricomposizione della sinistra storica italiana, il modo di sopravvivere fu trovato dal Pds (come ha testimoniato Piero Sansonetti in un libro di alcuni anni fa, La sinistra è di destra, Milano, 2013) nella sintonia totale con i grandi giornali padronali rapiti dinanzi al fascino del tintinnio delle manette.
Più che in trattamenti di favore ricevuti nelle inchieste o in un condizionamento dei risultati dell’azione penale, il giustizialismo del Pds si può misurare nel rigetto di ogni soluzione politica a Tangentopoli.

La sua ostilità ad ogni risposta di sistema alle consuetudini di illecito finanziamento dei partiti pare riconducibile alla subalternità culturale rispetto alle forme dell’antipolitica che nei primi anni ’90 risultarono egemoni nella fase fondativa della seconda Repubblica. Si tratta di una manifestazione di giustizialismo ancora più pesante di quello “darwiniano” che lamenta Cicchitto, perché esso ha una radice culturale e ha scavato un fossato mai più riempito dai post-partiti che vagano impotenti nel tempo storico del populismo.