Per la stragrande maggioranza degli italiani Enrico Berlinguer non è il quinto segretario del Pci: è il Pci. Ne è il volto, il mito, la leggenda. Più precisamente Berlinguer è il simbolo di quella “diversità comunista” che lui stesso rivendicava. Il leader comunista ma profondamente e sinceramente democratico, incorrotto e incorruttibile, attento alla questione morale ben prima che Mani Pulite ne evidenziasse le dimensioni, sempre schierato con i più deboli senza prestarsi a giochi politici e mercimoni. Ma non è solo questione di posizioni politiche: l’immagine fa la sua parte. Schivo, modesto, silenzioso, mai tribunizio, mai coinvolto nello scintillio delle giostre parlamentari, Berlinguer incarnava davvero il mito di quella diversità che, nell’opinione diffusa del popolo di sinistra, è andata perduta con lo scioglimento del Pci ma forse, ancora prima, proprio con la scomparsa dell’ultimo vero segretario. La morte tragica, quasi sul palco del comizio a Padova ove fu colpito il 7 giugno 1984 dall’ictus che lo avrebbe ucciso poche ore dopo a 62 anni, sarebbe forse bastata da sola a consacrarne il mito, celebrato del resto subito, negli oceanici funerali a Roma, seguiti da una massa popolare enorme, davvero dolente e smarrita. Un popolo orfano.
Come sempre c’è del vero nella mitologia che ha costruito un vero e proprio culto intorno al ricordo di Enrico Berlinguer ma c’è anche un massiccio processo di rimozione e addomesticamento della realtà storica. Valga per tutti l’esempio più eloquente: un’intera fase della biografia politica del quinto segretario viene quasi rimossa dall’esegesi, derubricata a particolare secondario. Quella del compromesso storico e dei governi dell’unità nazionale. Proprio quella partita politica fu invece l’elemento centrale della sua segreteria, il cuore della sua strategia politica. La scommessa persa alla quale seguirono anni confusi e di risulta che invece una lettura volutamente parziale ha trasformato nel “vero Berlinguer”.
Quando, nell’ottobre 1973, dopo la tragedia del golpe cileno, Berlinguer lanciò con tre articoli su Rinascita la sua proposta di compromesso storico, che ricalcava ma forzandola e riadattandola a un quadro molto diverso l’ispirazione di Togliatti, era segretario del Pci da poco più di un anno. Guidava però il partito, pur con molti limiti, già dal congresso del 1969, avendo assunto molti dei compiti del segretario Longo colpito da ictus. Aveva 51 anni e alle spalle una carriera tanto folgorante da giustificare la battuta che circolava ovunque all’epoca: «Si iscrisse giovanissimo alla segreteria del Pci». Sardo, con parecchio sangue blu nelle vene, aveva aderito al Pci nel 1943 e l’anno dopo si era fatto tre mesi di carcere per una manifestazione contro la penuria di beni primari. Fermato era stato portato in una caserma dedicata al suo antenato Girolamo Berlinguer.
Appena uscito dal carcere il padre Mario, figura tanto celebre quanto attiva nella politica sarda, lo portò a Salerno a conoscere l’ex compagno di scuola Palmiro Togliatti. Al “Migliore” il ragazzo piacque subito. Lo chiamò a Roma, a lavorare per il Pci come funzionario. Nel 1946 era alla guida del Fronte della Gioventù, spedito a Mosca a conoscere Stalin, poi, nel 1948, segretario della neonata Federazione giovanile comunista italiana, la Fgci, ma anche della Federazione mondiale della gioventù democratica, l’organizzazione internazionale dei giovani comunisti. Restò alla guida della Fgci fino al 1956, cercando di competere con i cattolici sulla moralità dei comportamenti anche sessuali: risalgono a quella fase l’esaltazione di Maria Goretti, in realtà meno significativa di quanto si sia fatto credere in seguito dal momento che si era limitato a paragonarla alla partigiana uccisa dai nazisti Irma Bandiera: entrambe si erano fatte uccidere per non tradire i propri ideali. Nessuna ambiguità invece sull’invito rivolto alle giovani comuniste di arrivare vergini al matrimonio per dimostrare di non aver nulla da imparare dai cattolici quanto a senso della morale.
Ma questi sono particolari. La spina furono le 70mila tessere della Fgci perse, che gli costarono una sorta di retrocessione alla scuola di partito di Frattocchie. Eclisse meteorica. Nel 1958 il dirigente sardo era di nuovo a Roma, fresco di matrimonio con la cattolica Letizia Laurenti e di chiamata a collaborare con il vicesegretario Longo nella segreteria del partito. Nel 1960 entra nella Direzione, con il compito chiave di responsabile dell’Organizzazione. Altri due anni e si schiudono le porte del vero vertice del Bottegone, storica sede centrale del Pci in via delle Botteghe oscure a Roma: la Segreteria. Come responsabile delle Relazioni estere Berlinguer fu incaricato di muovere le prime critiche esplicite del Pci al partito fratello sovietico per le modalità opache con cui si era realizzata l’estromissione di Kruscev nel 1964.
Da questo punto di vista, la coerenza di Berlinguer è assoluta. Dalle critiche all’invasione della Cecoslovacchia all’invenzione (fallita anche quella) dell’eurocomunismo negli anni ‘70 fino alla presa di distanza dopo il golpe del 1980 in Polonia, Berlinguer spinse sempre l’acceleratore sul processo di autonomizzazione del partito italiano da quello sovietico. Quando nel 1976 concesse a Gianpaolo Pansa la storica intervista in cui si diceva favorevole alla permanenza dell’Italia nella Nato lo faceva certamente per rassicurare l’elettorato in vista delle imminenti elezioni politiche, ma non tradiva il suo pensiero. Il sospetto di un attentato in Bulgaria, proprio nell’ottobre 1973, nell’incidente automobilistico, con un morto e due feriti gravi, in cui la sua macchina fu investita da un camion militare resta solo un’ipotesi. Non del tutto incredibile però.
Dopo l’XI Congresso del 1966, il futuro leader fu di nuovo retrocesso a segretario del Lazio: forse una punizione per la sua eccessiva vicinanza allo sconfitto Ingrao, più probabilmente una mossa astuta del segretario Longo, che lo voleva come suo delfino, per metterlo al riparo dagli agguati prima della scelta del successore. Toccò effettivamente a lui, indicato nel febbraio 1969 dalla Direzione, chiamata a scegliere tra il compagno Enrico e il compagno Napolitano. Pochi mesi dopo, il primo segretario della nuova generazione lanciò la sua proposta.
Il compromesso storico è la cifra della stagione berlingueriana, la sua essenza. Una svolta preparata nei tre anni della vicesegreteria reggente, messa in campo dopo il golpe cileno ma che sarebbe arrivata comunque. Fu una scommessa epocale e gravida di conseguenze, non tanto nella sua fase più teorica ma quando, dopo le elezioni del 1976, si tramutò in pratica concreta e partorì i governi di unità nazionale: prima quello Andreotti della non-sfiducia, poi, dal marzo 1978, quello, identico nella composizione, dell’ingresso del Pci in maggioranza con la formula dell’appoggio esterno. In quei tre anni si consumò una rottura irrecuperabile non solo con i movimenti giovanili ma anche con la base operaia. Il Pci accettò una politica di sacrifici tutta a spese della sua stessa gente, destinata a essere pagata a caro prezzo nelle urne. Le ricostruzioni storiche che attribuiscono alla scomparsa di Moro quel fallimento sono capziose e infondate. Moro mirava certamente a “normalizzare” il Pci come aveva fatto con il Psi e come suggerì di fare, non solo per salvarsi la pelle ma perché era il suo modo di intendere la politica, anche con le stesse Br. Ma era un progetto di lungo periodo, certo non prevedeva l’ingresso del Pci nel governo a breve. E se anche così fosse stato, la Dc non lo avrebbe seguito.
Nelle elezioni del 1979 il Pci perse 2 mln di voti, imboccando un percorso in discesa che non si sarebbe più fermato. La sconfitta dei comunisti risolse lo stallo che durava dal 1976 e aprì le porte al ritorno dell’alleanza fra Dc e Psi. Il Pci fu costretto a subire un’offensiva sociale senza precedenti, che si risolse con la secca sconfitta operaia alla Fiat nel dicembre 1980, e quella politica dell’aggressivo e spregiudicato Bettino Craxi. Berlinguer non riuscì mai a impostare una strategia politica, dopo aver perso la sua grande scommessa. La proposta dell’Alternativa democratica era in quel momento del tutto priva di fondamento e la stessa “Questione morale”, pur non certo impuntuale, era solo una formula di risulta. Il referendum sulla scala mobile, che si svolse quando Berlinguer era ormai morto e fu vinto da Craxi, chiuse il cerchio. Nella memoria della sinistra gli anni di Berlinguer resteranno sempre circondati da un’aura mitologica. Ma sono gli anni della sconfitta del Pci.