Nel 1975 il Centre for Contemporary Cultural Studies dell’Università di Birmingham, allora diretto dal giamaicano e già fondatore della New Left Review, Stuart Hall, pubblicò un volume collettivo destinato a diventare nei decenni successivi una pietra miliare: Resistence Through Rituals. Per la prima volta un gruppo di giovani e giovanissimi studiosi marxisti analizzavano in termini di classe le sottoculture proletarie giovanili che avevano segnato il decennio precedente: Teddy Boys, Mods, Skinheads, presto i Punk. Era uno dei tentativi di riapplicare le categorie marxiste più eretiche, e non a caso quel testo, e gli studi che seguirono, sono la base di qualunque analisi successiva applicata alle subculture. La chiave interpretativa, il punto di partenza lo aveva fornito un intellettuale, studioso, militante e dirigente comunista italiano morto in carcere quasi 4 decenni prima: Antonio Gramsci.
In quegli stessi anni, nella patria di Gramsci, la sinistra era dilaniata da un conflitto durissimo tra l’area istituzionale, il Partito comunista e i sindacati, e quella ribelle, la sinistra extraparlamentare e poi autonomia. Tra gli slogan ricorrenti nelle manifestazioni dei rivoluzionari ne risuonava uno dedicato specificamente ai segretari del Pci: “Gransci, Togliatti, Longo, Berlinguer: che cosa c’entra il primo con gli altre tre” (anche se la formulazione originale era più greve).
I due esempi valgono a indicare la specificità, anzi l’unicità, di Antonio Gramsci nel Pantheon dei segretari del Pci, determinato dalla valenza secondaria del ruolo di leader rispetto a quello, in cui giganteggia, di intellettuale.
Come si sarebbe rivelato il Gramsci segretario può essere oggetto solo di speculazioni azzardate. Mantenne la carica per meno di 10 mesi dal 26 gennaio all’8 novembre 1926, quando fu arrestato, inviato al confino a Ustica, dove si ritrovò con Bordiga, poi nel carcere di san Vittore. La condanna a vent’anni, quattro mesi e cinque giorni di carcere fu comminata dal Tribunale speciale fascista il 4 giugno 1927. In Parlamento svolse un unico intervento, il 16 maggio 1925 (parlò contro lo scioglimento della massoneria). Non era ancora formalmente segretario ma di fatto aveva guidato non ufficialmente il partito anche nel biennio precedente, dunque nella fase cruciale dell’Aventino seguita al delitto Matteotti, anche perché incarnava la linea dell’Internazionale contrapposta alla sinistra di Bordiga. Scontava però il limite di dover guidare un partito che restava nella sua grande maggioranza bordighista.
Nella nascita e prima edificazione del Partito, il pensatore sardo aveva avuto, con tutto il gruppo torinese dell’Ordine nuovo, un ruolo essenziale ma minore rispetto a Bordiga. Le due figure centrali nella nascita del Pcd’I erano per molti versi opposte. Gramsci, sardo di origini albanesi, veniva da una famiglia povera precipitata nella miseria dopo la condanna del padre a cinque anni di prigione per peculato. A 12 anni, nonostante una salute gracile e la statura minuta, appena un metro e mezzo da adulto in conseguenza del morbo di Pott che lo aveva colpito a due anni, lavorava 10 ore al giorno. A Torino arrivò nel 1911, grazie a un’esigua borsa di studio. Si piazzò nono all’esame, sette postazioni sotto Palmiro Togliatti. Il risultato non stupisce. Togliatti era un classico secchione. Gramsci, intelligentissimo e lettore vorace, era più eclettico, capace di passare dalla critica letteraria a quella teatrale, dalla politica, che aveva scoperto ancora prima di lasciare l’isola, a un’analisi sociale brillante.
A differenza di Bordiga, la cui preparazione era rigorosamente tecnico-scientifica, le radici di Gramsci erano filosofiche e crociane. Il suo marxismo non fu mai dogmatico, il suo percorso molto più ondeggiante di quello, rigido fino alle estreme conseguenze, dell’ingegnere napoletano. Nel 1914 Gramsci fu interventista. Come Bordiga, diventò presto leninista ma il loro leninismo era opposto. Per Bordiga, il capo dei bolscevichi non contraddiceva in niente ma al contrario inverava la verità di Marx. Gramsci salutò la Rivoluzione d’Ottobre con un articolo passato alla storia: “ Rivoluzione contro il Capitale”.
Ancora nel 1920, quando Bordiga non vedeva orizzonte che non fosse la scissione del Psi, il dirigente sardo sperava in un rinnovamento radicale del partito e la sua attenzione per l’organizzazione operaia spontanea, per la costruzione di strumenti reali di contropotere e gestione operaia nelle fabbriche fu all’origine del contrasto più profondo tra le future anime del Pcd’I. L’Ordine Nuovo fu il giornale dei Consigli operai, al punto che persino il senatore Agnelli (il nonno del Gianni che abbiamoconosciuto), come ricorderà lo stesso Gramsci nel Quaderno su Americanismo e Fordismo, tentò di contattare il gruppo torinese in nome del comune interesse per una modernizzazione del modo di produzione in fabbrica.
Dopo il delitto Matteotti (1924) quello che era già il vero leader del Pdc’I appoggiò la strategia aventiniana: del resto, nonostante alcuni equilibrismi dettati da esigenze diplomatiche in un partito la cui struttura era ancora bordighista, Gramsci era l’uomo dell’Internazionale e della strategia “frontista” dettata da Mosca e contrastata dalla sinistra di Bordiga. Fu però tra i primi a rendersi conto di quanto quella strategia fosse votata al fallimento. Tentò di correggere la rotta. Il 20 ottobre propose di trasformare l’Aventino in antiparlamento, nella speranza di forzare la mano al re. Le altre forze aventiniane respinsero la proposta. Il 12 novembre un deputato comunista, Luigi Repossi, rientrò in Parlamento per commemorare Matteotti. Il 26 lo seguì l’intero gruppo comunista, rompendo il fronte aventiniano.
Il Gramsci dirigente e poi segretario del Pci non è quello rimasto nella storia, e tanto attuale da poter essere proficuamente adoperato per interpretare fenomeni come il punk oppure per seguire le tracce dell’invasività di un modo di produzione nelle sfere apparentemente distanti della morale o della sessualità. Quello è il Gramsci che, non senza un certo paradosso, ha lasciato un segno indelebile grazie a 33 blocchi di appunti non destinati alla pubblicazione, i Quaderni dal carcere, gli ultimi 12 dei quali furono scritti quando il detenuto aveva formalmente ottenuto, nell’ottobre 1934, una libertà condizionale per gravi motivi di salute che aveva modificato ben poco la sua condizione. Trasferito in una clinica a Formia nel dicembre 1934 rimase tuttavia sotto stretta sorveglianza e con il divieto di curarsi in una clinica meglio attrezzata per paura di una possibile fuga. Il permesso di curarsi a Roma gli fu concesso solo nell’agosto 1935, quando era ormai troppo grave per lasciare il letto. Il 21 aprile 1937 gli fu concessa la piena libertà. Morì sei giorni dopo.
I Quaderni furono consegnati dalla cognata di Gramsci Tatiana Schucht – che viveva in Italia mentre la moglie Giulia era in Unione sovietica – all’ambasciata sovietica che li inviò a Mosca, dove furono affidati a Togliatti. La stessa Tatiana si era occupata di garantire i contatti del detenuto con Mosca, consegnando le sue lettere all’economista amico di Gramsci e “marxista indisciplinato” (come lui stesso si definiva) Piero Sraffa, allora a Cambridge, che le faceva poi pervenire a Mosca. I Quaderni, con le loro preziose e profonde riflessioni sul Risorgimento, la Questione meridionale, i limiti del capitalismo italiano (tanto precise che sono in larga misura ancora valide) e soprattutto con la scoperta del concetto modernissimo di “egemonia” furono pubblicati nel dopoguerra da Einaudi, curati dal dirigente del Pci Felice Platone, supervisionati da Togliatti.