Quando Benedetto Croce lo incontrò di nuovo nel 1944, dopo quasi 25 anni da quando si erano parlati per la prima volta, Palmiro Togliatti era appena tornato dal decennale esilio nell’Urss. I filosofo gli affibbiò, non senza un accento critico, la definizione destinata a rivelarsi per sempre la più calzante: “totus politicus”. Non era del tutto esatta, perché Togliatti fu intellettuale di razza, però coglieva il nocciolo non solo dell’uomo ma del marchio indelebile che impresse al suo partito. Se oggi, a un secolo dalla fondazione e a trent’anni dallo scioglimento del Pci, si chiedesse a un giovane di indicare il leader che più di ogni altro connota quel partito, risponderebbe probabilmente Enrico Berlinguer. Qualcuno, più colto e sofisticato, citerebbe forse Antonio Gramsci. Sarebbero entrambe risposte sbagliate. Il Pci è stato soprattutto Palmiro Togliatti. La sua struttura, la sua vocazione politica, la sua grandezza e le sue miserie portano la firma del capo che alcuni nel partito, con frequenza minore di quel che l’aneddotica lascia credere, definiva “il Migliore”.
Togliatti guidò il Pci per 38 anni, dal 1926 alla morte nel 1964, anche se formalmente ne divenne segretario solo nel 1944: prima era semplicemente “il capo dei comunisti italiani”. Lo trasformò da partito di militanti a partito di massa onnipresente nella società italiana. Fece della sua personale interpretazione della “democrazia progressiva”, concetto coniato dal bulgaro e capo della III Internazionale Dimitrov, l’asse di una strategia che ha accompagnato il Pci dal dopoguerra sino allo scioglimento. L’incidenza del vero fondatore sul dna del più grande partito comunista d’occidente è stata però più profonda e pervasiva. Venivano da lui quell’estrema prudenza che aveva reso Togliatti forse il politico più oculato e accorto del movimento comunista internazionale ma anche l’alterigia così marcata tra i dirigenti comunisti italiani.
C’è una certa ironia nel fatto che, tra tutti i leader della sinistra del Psi che diedero vita alla scissione e alla formazione del Pcd’I, l’unico assente al congresso di Livorno del 1921 fosse proprio Togliatti. Era rimasto a Torino, a dirigere L’Ordine Nuovo, il periodico di Gramsci nel quale era letteralmente nato alla politica. È bizzarro anche il fatto che il più “politico” tra gli esponenti della frazione comunista sia stato anche quello che più ha esitato prima di consacrare alla politica la sua intera esistenza. Nato a Genova da famiglia piemontese ma tornato molto giovane in Piemonte, prima a Novara e poi a Torino, sembrava destinato a una carriera di intellettuale più che di leader politico. Studioso, anzi “secchione”, era arrivato secondo al concorso per la borsa di studio all’Università di Torino nel quale il futuro amico e compagno Gramsci si era piazzato nono. Costretto dalla famiglia a iscriversi a Giurisprudenza invece che a Filosofia, dopo aver conseguito a pieni voti la laurea discutendo la tesi con Luigi Einaudi, si iscrisse di nuovo a Filosofia, per una seconda laurea. Socialista dal 1914 e, come Gramsci, interventista nella Grande Guerra, lasciava alla politica spazio marginale. Sui primi numeri dell’Ordine Nuovo scriveva di cultura, nella rubrica “La battaglia delle idee”. Nel 1923 fu di nuovo sul punto di abbandonare la politica attiva per riprendere quegli studi in Filosofia che aveva dovuto abbandonare prima della laurea.
Dal 1924 però la vita di Togliatti e l’attività politica si sovrappongono quasi completamente: il congresso di Lione e la defenestrazione di Bordiga, l’esilio a Parigi e poi la lunghissima permanenza a Mosca, l’ascesa alla segreteria della III Internazionale, il ritorno in Italia, la rinascita del Pci come partito di massa, l’amnistia concessa ai fascisti e ai soldati di Salò come ministro della Giustizia, il ruolo centralissimo nella Costituente, la direzione del Pci fino all’improvvisa morte a Yalta, nel 1964. Togliatti è l’uomo della svolta di Salerno, che nell’aprile del 1944 pose le basi della collaborazione tra Pci e forze democratiche liberali per la ricostruzione della democrazia italiana, il costituente il cui ruolo nella definizione della Carta fu essenziale e insostituibile, il leader che, dopo l’attentato di cui era stato vittima il 14 luglio 1948 e la conseguente rivolta popolare, evitò che la situazione degenerasse in guerra civile ordinando al suo partito di tenere la testa fredda, i nervi a posto e i fucili nei ripostigli. È il capo del Pci che, negli anni della guerra fredda, in nome della “democrazia progressiva” avviò di fatto il più forte e temibile partito comunista occidentale sulla strada della democrazia. È un padre della patria e tutti gli effetti e se questo ruolo, non negatogli da nessuno, non è neppure esaltato come si dovrebbe è per colpa del compagno Ercole Ercoli, pseudonimo dello stesso Togliatti negli anni della III Internazionale.
In quella veste il ruolo del numero uno del comunismo italiano fu più oscuro e più ambiguo. I dirigenti del Pci furono certamente complici nella denuncia e nella deportazione dei militanti italiani vittime dello stalinismo. Togliatti bollò come «una decisione errata e catastrofica» l’azzeramento del Partito polacco,nel 1938, una mattanza che risparmiò solo 21 militanti. Ma quella “decisione catastrofica” fu conseguenza diretta della condanna decretata, in data incerta e a porte chiuse, da quel Comintern di cui Ercoli era il principale dirigente dopo Dimitrov. In Spagna, durante la guerra civile, Togliatti maturò la concezione feconda di “democrazia progressiva”. Ma nelle vesti di Ercoli diresse lo sterminio del Poum catalano, tragedia immortalata da George Orwell nel suo Omaggio alla Catalogna.
Anche dopo la guerra, quando riuscì a evitare il ritorno a Mosca rifiutando la guida del Cominform per restare al comando del Pci, il segretario si spese cercando di evitare la rottura tra Urss e Cina ma, nel 1956, scrisse personalmente a Mosca invocando l’invasione dell’Ungheria e plaudì quando i carri armati entrarono a Budapest. Al punto di irridere chi, il giorno dell’invasione, gli diceva con quanta angoscia sarebbe andato a letto quella notte: «E io invece mi berrò un bel bicchiere di vino».
Tra Togliatti ed Ercoli, tra il dirigente dello stalinismo e quello del comunismo italiano, non c’è in realtà contraddizione. In entrambi i casi l’uomo agiva da politico dotato di un ferreo senso della realtà e da una innata prudenza. Quando, nel suo ultimo atto politico prima dell’arresto, Gramsci scrisse al Comitato centrale del partito sovietico la famosa lettera in cui, pur schierandosi con Stalin, invitava a non sacrificare l’unità del gruppo dirigente bolscevico, Togliatti scelse di non inoltrarla. Valutava la situazione con l’abituale realismo. Sapeva che quell’unità non si sarebbe mai più ricostruita. Immaginava come quella lettera del segretario italiano sarebbe stata interpretata a Mosca. Decise, provocando il risentimento di Gramsci, di chiudere la lettera in un cassetto. Era lo stesso realismo che lo avrebbe spinto a concedere l’amnistia ai fascisti in nome della necessaria pacificazione nazionale, a bloccare la sollevazione popolare dopo l’attentato del 1948, a guidare il Pci nella pacifica “via italiana al socialismo”.
Forse lo stesso realismo era all’origine della ferrea scelta di restare sempre e comunque legato all’Urss, «la nostra parte, la nostra bandiera, la nostra vita». Ancora nei primi anni ‘60 minacciò le dimissioni a fronte di una posizione della Direzione che considerava troppo critica nei confronti dell’Urss. È probabile che anche su quel fronte, con la lucidità fredda che gli era propria, valutasse quali sarebbero state le conseguenze per il partito italiano di un divorzio dall’Urss. Di certo non si trattò mai di viltà. In più occasioni Togliatti dimostrò al contrario un notevole coraggio personale non solo di fronte ai rischi materiali. Ci voleva coraggio e parecchio, nell’Italia conformista e nel Pci ancora più perbenista degli anni ‘40 e ‘50, per lasciare senza nascondersi a moglie, Rita Montagnana, partigiana e dirigente comunista, e portare alla luce del sole il nuovo amore con l’allora giovanissima Nilde Iotti, nel 1948. Non furono né l’interesse né la viltà né il cinismo a dettare le scelte migliori ma anche quelle peggiori del Migliore. Furono la sua personalità, la vocazione e la forma specifica della sua intelligenza: “totus politicus”.