L’emendamento al disegno di legge sulla diffamazione presentato dal senatore Gianni Berrino, di Fratelli d’Italia, rivolto a inasprire le pene per chi scrive cose false sul conto altrui è giustificato dal proponente col solito argomento nobilitato dal solito fine ineccepibile: proteggere le vittime, in questo caso le vittime di “condotte reiterate e coordinate” ad arrecare loro un “grave pregiudizio” di reputazione, in particolare tramite l’attribuzione di fatti di cui il diffamatore conosce la falsità. Il problema, come al solito, è che chi fosse vittima di un comportamento simile sarebbe compiutamente protetto anche ora, senza la necessità di questa verbosa inoculazione in un ordinamento già abbastanza aggravato di previsioni penali ridondanti. Salvo credere, ma l’autore dell’emendamento dovrebbe spiegare come e a causa di quale sconosciuta lacuna, chi sia diffamato in quel modo, e cioè tramite una campagna screditante basata su attribuzioni false, sarebbe sprovvisto di tutela nel nostro Paese. “Nessuno”, dichiarava ieri il senatore Berrino, “ha diritto di inventarsi fatti falsi e precisi per ledere l’onore delle persone”. Vero. Con il dettaglio che quel diritto non c’è a prescindere dall’emendamento che lo ripete.

La balorda ipotesi di riforma

Ma non basta. Perché se pure (e non è così) quel costume diffamatorio, nei paramenti di fattispecie che l’emendamento vorrebbe predisporre, sfuggisse davvero all’attuale pretesa punitiva dello Stato, ebbene comunque non sarebbero gli anni supplementari di galera e le multe astronomiche nei confronti del giornalista a tutelare con efficacia e compiutezza la reputazione delle persone. Tre o quattro anni di galera, aumentati di una buona aliquota se la pubblicazione illecita riguarda “un corpo politico, amministrativo o giudiziario”, o centoventimila euro di multa al giornalista responsabile della diffamazione due punto zero consacrata da questa balorda ipotesi di riforma, servono tutt’al più a inaugurare un corso politico esattamente contrario agli orientamenti del giudice costituzionale: il quale, sia pur timidamente e per ciò che può, è intervenuto su un sistema, il nostro, che ancora pretende di usare i piombi a contenimento di un’attività – l’informazione – certamente meritevole di attenzione regolatoria, ma davvero non con il ricorso a quegli strumenti di intimidazione e afflizione.
La strepitosa inaderenza di questa inopinata iniziativa riformatrice – e diremmo per fortuna – ha incontrato il disappunto non solo di alcuni rappresentanti delle opposizioni, ma anche le perplessità di esponenti della maggioranza e nello stesso partito di quel disinvolto senatore. Se possibile, tuttavia, la cosa aggrava lo scenario, perché dimostra in quale assetto di improvvisazione e ingestibile spettacolarismo intervengano esperimenti su faccende come questa, davvero non di dettaglio.

Il rischio del calderone punitivo

È ben vero che le vittime di campagne denigratorie e di diffamazione patiscono pregiudizi gravissimi, ed è altrettanto vero che un’abitudine giornalistica noncurante è incaparbita nel fare a pezzi la reputazione delle persone mettendo in prima pagina la notizia sputtanante e in trafiletto quella che ristabilisce la verità: ma non è un andazzo che si raddrizza elevando sanzioni di stampo terroristico che peraltro, statisticamente, non terrorizzano nessuno e si scaricano esemplarmente ed episodicamente su qualcuno che una volta su due nemmeno le merita. Perché questo dovrebbe essere valutato: vogliamo davvero mettere quattro anni di vita di un giornalista nelle mani di un magistrato, affidandogli di valutare se quella che l’imputato ha organizzato è davvero “una campagna” o invece una diffamazione ordinaria, se i fatti narrati sono in parte o tutti falsi, se era certo o no dell’innocenza del diffamato, e via di questo passo sulle distinzioni in base alle quali questa legge forsennata farebbe scattare quelle sanzioni strepitose?

Per quanto sia vero che l’informazione può rovinare gli individui, distruggerne l’immagine, la carriera, la vita, il fatto che in quel calderone punitivo possano finire manifestazioni del pensiero magari discutibilissime e persino totalmente infondate, e pure meritevoli di sanzione, ma non di questo tipo, forse dovrebbe essere considerato. Forse, cioè, dovrebbe essere considerata l’inopportunità che l’esercizio, magari anche gravemente improprio, del diritto di manifestazione del pensiero finisca in galera per quattro anni con quello che pur colpevolmente vi si abbandona.