I processi per vanità e la carezza di Costa
Ma quale bavaglio, non difendete la gogna mediatica: le balle colossali e lo stop al copia e incolla
Oggi pubblici ministeri e giornalisti sono, l’uno a braccetto con l’altro, l’uno funzionale all’altro, assoluti padroni della reputazione di una persona. È questo il bene che difendono
Basta con la lagna delle leggi bavaglio, per favore. Orde di giornalisti che si percuotono il petto al grido, contrito, di dolore per cui: “Ohibo’… Non potremo più informare i cittadini sulle inchieste…! Ci mettono il bavaglio…!”. Ma per favore, siamo seri. Sono tutte balle colossali. Che vogliono difendere un privilegio eccessivo e padronale. Delle altrui reputazioni, vicende, e carriere.
L’obiettivo di una inchiesta a carico di un cittadino, anche se richiesto di detenzione cautelare in carcere, è quello di appurare se siano stati commessi reati o meno, e separare un grave indiziato dalla società, che si vuole proteggere. Non quello di scatenare una gogna colpevolista e anticipatoria dell’accertamento di responsabilità, facendolo peraltro a suon di colpi parziali che potrebbero benissimo, come sempre più spesso accade, dimostrarsi poi fallaci, alla prova del processo. Rimettiamo dunque nel fodero la lagna a difesa di una casta che vuole rimanere padrona del diritto di sputtanare la gente con la scusa che “c’è un’inchiesta e noi ci siamo limitati a riportarne gli elementi”.
Bavaglio? Stop al copia e incolla del Gip e alla disinformazione
La verità è che quanto propone Enrico Costa è una carezza fin troppo leggera, contro un malcostume diventato consuetudine, che c’entra nulla con l’informazione, ma è più aderente a una orientata disinformazione contra personam. Cosa propone Costa? Di tornare al regime normativo precedente al 2017, cioè a quanto prescrive l’articolo 114 del codice di procedura penale.
In sostanza comprensibile, degli atti di indagine espletati dagli inquirenti nelle indagini preliminari, si può raccontare il contenuto, ma non pubblicare per intero il documento.
Dal 2017 infatti, dopo un intervento dell’allora Ministro della Giustizia Andrea Orlando, a questo regime contro cui nessuno di quelli che oggi protestano aveva mai protestato, vengono sottratte le ordinanze di custodia cautelare in carcere. Che -anomalia quasi contra legem- sono ormai un copia incolla che spesso per pigrizia i Giudici delle indagini preliminari fanno delle richieste di custodia in carcere avanzate dai pubblici ministeri.
In sostanza, il copia incolla selvaggio e spesso acritico è ahimè il contrario di quel che dovrebbero essere, cioè un primo vaglio assai severo che un Gip dovrebbe stendere su quanto raccolto sino al momento della richiesta dal pubblico ministero che gli chiede di restringere la libertà di una persona di cui si chiede l’arresto e la detenzione cautelare in carcere, in attesa del processo. Ebbene, ormai da anni la pratica che qualcuno pretende resti tale, vuole che di quell’ordinanza si dia completa pubblicazione, anche se è provvedimento del tutto parziale perché deve ancora passare il vaglio del Tribunale del Riesame e della Cassazione. Vaglio che più spesso che volentieri fa a pezzi tanto la richiesta, quanto l’ordinanza che le dà disco verde acritico. Ma sapendo che l’ordinanza è tutta pubblicabile, e che il Gip nell’accoglierla non ne cambierà una virgola, la richiesta viene scritta a mo’ di genere letterario, e condita di particolari molto gustosi, suggestivi, funzionali alla pubblicazione che non deve informare i cittadini, come capziosamente si sostiene, ma orientarne il consenso, l’opinione, sull’inchiesta che quel Pm sta conducendo.
Legge Bavaglio? Il racconto colpevolista che non protegge la privacy dell’indagato
Il solito discorso, insomma, di usare la stampa per sostenere se stessi e le proprie inchieste anche se queste sono assai debolucce e che se le si vagliasse con imparzialità e severità sin dall’inizio, morirebbero sul nascere. Enrico Costa si propone, giustamente, di proteggere la privacy dell’indagato. Perché sempre più spesso l’iter è il seguente: il Pm fa richiesta di arresto, guarda caso nella richiesta finisce di tutto (particolari gustosi ma irrilevanti penalmente, intercettazioni tagliate e decontestualizzate, addirittura elementi utili a un certo racconto colpevolista ma estranei all’inchiesta). Il Gip fa copia e incolla e dispone l’ok alla richiesta. Scatta l’arresto per il malcapitato di turno, che si vede irrimediabilmente sputtanato su giornali e telegiornali. I quali nel frattempo lavorano poco e niente ma si ritrovano grande materiale per fare un racconto colpevolista che indigna la platea del pubblico e fa vendere loro più copie e click. Il Pm assume consenso e visibilità. Poi arriva il Riesame che fa a pezzi la misura già attuata e pubblicizzata, ma nessuno ne scrive una riga, né ne fa menzione, e l’indagato torna libero ma macchiato. Più avanti, in un caso su due verrà addirittura assolto ma per tutti i non addetti ai lavori, quindi la maggioranza della gente, resterà macchiato del sospetto di essere un criminale e se nell’ordinanza con cui è stato buttato in cella in attesa di un processo c’era qualche elemento di racconto suggestivo, gli resterà appicciato sulla schiena, indelebile.
Diciamoci la verità: cosi come è il regime post 2017, è uno stimolo a mettere di tutto nelle richieste di detenzione cautelare in carcere, anzitutto i particolari irrilevanti penalmente ma gustosi per chi difende il proprio capriccio allo ius sputtanandi. Altro che libertà d’informazione e bavaglio. In questo schema, oltre che della libertà personale dei cittadini, pubblici ministeri e giornalisti sono, l’uno a braccetto con l’altro, l’uno funzionale all’altro, assoluti padroni della reputazione di una persona. È questo il bene che difendono. Un potere dispotico. Invece, passasse (come sembra che sia visti i numeri al Senato) questa proposta, i giornalisti potrebbero senz’altro raccontare che c’è un’inchiesta, che riguarda Tizio, che Tizio è stato arrestato, e raccontare anche il contenuto dell’ordinanza, ma senza quella parcellizzazione che oggi impera, utile solo a distorcere alcuni elementi per viziare a proprio favore il consenso di chi guarda o legge.
Francamente, mi pare il minimo, e la sanzione è assai blanda, giacche’ oblabile. Io sono dell’idea che si dovrebbe anche vietare la pubblicazione del nome e dell’immagine del magistrato che si occupa di una determinata inchiesta, e citare solamente l’ufficio che procede contro un cittadino, spersonalizzando il lavoro della procura che indaga. Così scemerebbe quell’enorme propensione alla vanità che muove alcuni pubblici ministeri nel promuovere certe azioni eclatanti pensate solo per sostenere il proprio protagonismo, e metteremmo forse fine ai processi per vanità. Che sono assai più di quanti non pensiate. Altro che bavaglio…
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