Giustizia
Protezione dati personali, caso Fimmanò archiviato ma il web non dimentica
Il professore napoletano era stato coinvolto nel 2020 in un’inchiesta per cui aveva fatto richiesta (prima del suo genere) di rimozione dalla rete, ma il Garante della privacy l’ha respinta

Lo “sputtanamento” è per sempre. Come un diamante. Lo ha stabilito il Garante della privacy che il mese scorso ha respinto la richiesta, la prima del suo genere, di rimozione dalla rete di alcuni url relativi ad una indagine penale avanzata dal professore napoletano Francesco Fimmanò.
Il docente, ordinario di diritto commerciale e direttore scientifico dell’Università Mercatorum, era stato coinvolto nel 2020 in una inchiesta della Procura di Bari dove gli si contestavano le modalità con cui aveva ricevuto un incarico legale dall’Agenzia per il diritto allo studio della regione Puglia.
Al termine dell’indagine era stata la stessa Procura a chiederne l’archiviazione, accolta dal gip in quanto tutto si era svolto con la massima trasparenza.
Nel decreto di archiviazione il gip aveva poi apposto in calce una annotazione specificando che lo stesso costituiva «titolo per ottenere ai sensi dell’articolo 17 del Regolamento europeo 679 del 2016 un provvedimento di sottrazione dell’indicizzazione da parte dei motori di ricerca», istituto recepito dal nuovo articolo 64-ter delle disposizioni attuative del Codice di procedura penale, introdotto dal dl 150 del 2022 sul processo penale in tema di diritto all’oblio.
Il professor Fimmanò, archiviato già nella fase delle indagini preliminari, aveva quindi scritto a Google, trasmettendo il provvedimento, affinché fosse preclusa l’indicizzazione o venisse disposta la deindicizzazione sulla rete dei suoi dati.
Non avendo avuto riscontro dal colosso di Mountain View in California, nonostante una diffida, Fimmanò si era quindi rivolto al Garante per la protezione dei dati personali. Google, infatti, aveva rimosso solo alcuni dei link indicati dal professore «a titolo di cortesia e spirito di collaborazione», decidendo di lasciarne altri che davano conto dell’avvenuta archiviazione e fornivano un quadro aggiornato della vicenda penale. Per Google ci sarebbe stato l’interesse «generale» ad avere comunque informazioni nei confronti dei soggetti che esercitano un ruolo pubblico, come politici, alti funzionari pubblici, uomini d’affari e professionisti iscritti agli albi.
Il mese scorso, come detto, ecco arrivare la doccia fredda del Garante che in un provvedimento di appena cinque pagine ha sposato in toto la tesi di Google.
Eppure la riforma Cartabia in tema di processo penale, con il citato articolo 64-ter, introdotto a seguito di un emendamento presentato all’epoca da Enrico Costa, deputato e responsabile giustizia di Azione, aveva esplicitamente riconosciuto il «diritto all’oblio» nella più recente declinazione della deindicizzazione nei confronti di chi fosse stato indagato o imputato e avesse visto la propria posizione definita con un provvedimento favorevole (archiviazione, non luogo a procedere, proscioglimento).
Sul punto va ricordato che una ordinanza della Corte di Cassazione dello scorso anno aveva affermato un’importante principio di extraterritorialità della protezione dei dati personali, stabilendo che l’ordine impartito da un’autorità garante italiana di «eliminare» dai motori di ricerca una notizia non più attuale, deve valere per tutte le versioni web sparse nel mondo e non solo più per quelle dell’Unione europea.
La disposizione ha generato false illusioni in quanto “deindicizzare” non significa “cancellare”: il risultato che si ottiene è solo quello che i dati personali inseriti nei motori di ricerca non sono più in associazione a parole chiave relative al reato contestato. È sufficiente, quindi, effettuare una ricerca diversa, ad esempio inserendo il nome di un coimputato o quello del magistrato che ha condotto le indagini che il link della notizia che si pensava deindicizzata ricompare.
«Non si poteva ottenere di più», aveva dichiarato Costa, secondo il quale «è evidente che di un personaggio pubblico, coinvolto in una vicenda giudiziaria, anche se assolto. si troverà sempre traccia della notizia».
Da Google sono stati chiari: se la notizia è stata “aggiornata” ai più recenti sviluppi della vicenda giudiziaria, quindi all’assoluzione, difficilmente potrà essere “deindicizzata”, dovendo sempre contemperare l’interesse alla reperibilità delle informazioni riportate riguardo il ruolo pubblico rivestito.
La Corte di Giustizia e il Comitato europeo per la protezione dei dati hanno indicato «la prevalenza dell’interesse generale ad avere accesso alle informazioni quando l’interessato esercita un ruolo pubblico, anche per effetto della professione svolta o delle cariche ricoperte». In particolare, alla domanda “Cosa rappresenta un ruolo nella vita pubblica?” il Comitato europeo per la protezione dei dati ha chiarito, tra l’altro, che «a titolo di esempio, politici, alti funzionari pubblici, uomini di affari e professionisti (iscritti agli albi) possono essere solitamente considerati come coloro che svolgono un ruolo nella vita pubblica. Vi è un argomento a favore del diritto del pubblico a ricercare le informazioni rilevanti rispetto al loro ruolo e alle attività pubbliche».
Da ultimo, infine, le Linee Guida del Comitato europeo per la protezione dei dati circa la natura giornalistica di un’informazione e il fatto stesso che sia stata pubblicata da un giornalista, la cui professione è informare il pubblico, «costituiscono elementi a conferma del sussistente interesse pubblico alla notizia».
«Non voglio alcuna cortesia da Google, voglio solo che sia applicata la legge», aveva dichiarato il professore napoletano che non si è scoraggiato ed ha presentato opposizione al tribunale di Napoli. L’udienza è stata fissata per il prossimo 25 febbraio davanti alla giudice della prima sezione civile Immacolata Cozzolino. «I maggiori danni reputazionali derivano dalla narrazione mediatica della vicenda giudiziaria, anche se si è conclusa con una archiviazione», sottolinea Fimmanò.
© Riproduzione riservata