Da poco eletto segretario generale, Lama si presentò al Congresso della Fiom del luglio 1970 assicurando pieno appoggio al disegno di unità sindacale che era portato avanti dal gruppo dirigente della categoria e che era osservato con tante riserve da ampi settori della Confederazione e del Pci. Ma il significato vero della presenza di Lama ai vertici della Cgil stava nel processo di identificazione (il copyright è di Ottaviano Del Turco) tra lui e il sindacato. In larga misura a questa popolarità contribuì anche la tv e la capacità di Lama di «bucare il video». Lama è la persona che non solo ha imposto il sindacato tra i grandi protagonisti della vita del paese, ma lo ha reso familiare agli italiani, al pari di ogni altra realtà appartenente alla loro vita quotidiana.

Naturalmente, questi processi dipendevano da un complesso di fattori non tutti riconducibili al carisma e alla personalità di Lama. Anche lui, come tutti, era figlio del suo tempo. Dietro l’avanzata del sindacalismo confederale c’era lo strappo dell’autunno caldo (del 1969), con le sue conquiste immediate e di prospettiva e soprattutto con quel saldo rapporto di fiducia che il movimento sindacale era riuscito a stabilire con i lavoratori, ricavandone una forza organizzativa senza precedenti. Si era consumata, in quella fase, una devastante rottura di tutti gli equilibri, politici, economici e nei rapporti tra le classi sociali. Sembrava a portata di mano un profondo rivolgimento degli ordinamenti istituzionali. E questo fatto creava forti timori in molti settori della società italiana. Luciano Lama ebbe la capacità sia di garantire i lavoratori e di preservare la loro fiducia nell’azione riformista, graduale ed evolutiva.

Non si può parlare di Lama, leader indiscusso, senza richiamare il suo importantissimo contributo all’unità a partire da quella della Cgil. Lama ricorreva alle solite metafore per spiegare, anche in tale circostanza, la sua opinione. Parlava della sindrome di Tecoppa, un personaggio che pretendeva dal proprio avversario la più assoluta immobilità per poterlo infilzare comodamente. C’era, infatti, un “comune sentire” dei militanti comunisti, secondo il quale partner ed alleati erano giudicati “unitari”, nella misura in cui convenivano sulle loro scelte. Per Lama, invece, i “diversi da noi” esprimevano delle posizioni legittime, con le quali occorreva misurarsi paritariamente. Guai, dunque, a fare dei processi alle intenzioni degli interlocutori; bisognava avere per i loro meccanismi decisionali il medesimo rispetto che si pretende per i propri. La mediazione era il sale della politica e doveva essere una sintesi ragionevole tra diversi punti di vista tutti egualmente rispettabili. E l’unità della Cgil, poi, era un presupposto essenziale – su questo punto Lama seguiva l’insegnamento di Di Vittorio – per un rapporto positivo anche con la Cisl e la Uil.

La grande occasione di Lama venne al tempo della solidarietà nazionale, quando il Pci entrò a far parte della maggioranza, appoggiando governi monocolori democristiani (presieduti da Giulio Andreotti), insieme alle forze politiche di centro-sinistra, tra il 1976 e il 1979. Erano gli anni di piombo. La situazione del Paese era molto grave, oppressa da un’inflazione a due cifre, mentre il terrorismo muoveva apertamente guerra allo Stato. L’avvio della solidarietà nazionale fu contrassegnata da soluzioni parlamentari molto arabescate: dapprima si ebbe il Governo delle astensioni (quando i partiti diversi dalla Dc, Pci incluso, diedero il loro appoggio all’esecutivo astenendosi); poi, si passò ad un voto di fiducia comune – sospinto dall’emozione e dalla preoccupazione – lo stesso giorno in cui le Brigate rosse rapirono Aldo Moro e ne massacrarono la scorta. La risposta sindacale a quel disegno politico fu la cosiddetta strategia dell’Eur (dalla località romana in cui si svolse, nel 1978, il convegno unitario che varò la piattaforma sindacale). Si trattava di un insieme di disponibilità che le confederazioni erano pronte a concedere in cambio di riforme che portassero al risanamento e allo sviluppo del paese.

L’approccio ricordava quel Piano del lavoro che Giuseppe Di Vittorio aveva voluto varare nel 1949 come alternativa al modello di sviluppo capitalistico. Trent’anni dopo a Lama era capitata l’occasione di dialogare con un governo sostenuto anche dal Pci. Ed era stato un precursore della “linea dell’Eur”, poi divenuta patrimonio unitario, sia pure con tanti mal di pancia all’interno del movimento sindacale. Era stato il segretario della Cgil, infatti, ad anticipare il senso profondo di quella impostazione in una celebre intervista rilasciata ad Eugenio Scalfari, in occasione della quale aveva affermato, tra le molte eresie, che i salari non possono essere una variabile indipendente. In tanti erano caduti dal letto, al mattino, quando si erano imbattuti in quella storica conversazione. Nel sindacato fu un giorno di smarrimento. Sergio Garavini volle manifestare il suo dissenso dichiarando a Vittoria Sivo (giornalista di Repubblica), in serata, che l’intervista non l’aveva ancora letta perché aveva avuto da fare. Anche il rapporto con i militanti risentì di quell’improvvisata. Ma Lama aveva messo in conto queste difficoltà. Ed entro pochi mesi la sua linea divenne quella di tutto il movimento sindacale. «Non basta avere ragione – soleva dire Luciano – bisogna anche riuscire a farsela dare».

Del resto, Lama aveva le idee chiare: anche attraverso un’azione di carattere fortemente politico si poteva rassodare l’istanza unitaria di un movimento sindacale impregnato di ideologia come quello italiano. In sostanza, se le forze politiche andavano tra loro d’accordo e se il sindacato era unito nel proporre una linea di condotta che favoriva quelle intese (alla comune di ricerca di una strategia ritenuta di cambiamento) sarebbe andato avanti un quadro complessivo più favorevole in quella direzione, di maggiore responsabilità, che Lama stesso auspicava per il suo stesso partito. «L’Eur – disse Luciano, anni dopo – era innanzi tutto una sfida a noi stessi, alla coerenza che dà l’autorità di chiamare tutte le forze disponibili a realizzare un cambiamento “globale”, per usare una espressione di allora. La prima coerenza era data dalle compatibilità da rispettare, perché non esistono nell’economia delle variabili assolutamente indipendenti>>. Era un “cedimento”? L’Eur non teorizzava sacrifici inutili per chi già si sacrificava – continuava Lama – anzi trasformava la moderazione rivendicativa in un’arma nelle mani degli occupati per dare lavoro a chi non l’aveva. ‘’Con la coscienza che mettere insieme vecchio e nuovo significava continuare a subire il vecchio e a non aprire spazi al nuovo».

Tuttavia la fine della solidarietà nazionale portò al deterioramento dei rapporti tra i partiti i quali trasformarono il mondo del lavoro e le sue problematiche in un campo di scontro. Questi anni sono descritti puntualmente nel saggio ‘’Passato prossimo’’ di un protagonista come Pierre Carniti. Il Pci volle recuperare un rapporto diretto con i lavoratori; ciò condusse a momenti di competizione con i sindacati e con la stessa Cgil che sfociarono nelle rotture (anche all’interno della stessa Confederazione di Corso d’Italia) del 1984 (sul decreto di San Valentino sulla scala mobile) e del 1985 (sul referendum abrogativo della legge di conversione). Lama non potè che schierarsi dalla parte del suo partito ma (con l’intelligente collaborazione di Ottaviano Del Turco, leader dei socialisti della Cgil), riuscì a gestire prima e a superare poi i lasciti della guerra intestina e a salvare, nella misura del possibile, i rapporti con Cisl e Uil.

A prova del rigore di Luciano Lama, fu sua premura inviare a Giorgio Benvenuto e a Pierre Carniti la scaletta del discorso che avrebbe pronunciato il giorno dopo in una grande manifestazione a Piazza San Giovanni. Nel 1986 lasciò il sindacato (fece l’errore di far eleggere Antonio Pizzinato al suo posto; presto se ne accorse e lo ammise) e iniziò un percorso politico istituzionale come vice presidente vicario del Senato. Nel Pci di allora non ci fu un altro Novella a proporlo come segretario, dopo la morte di Berlinguer. Poi, negli ultimi anni accettò di fare il sindaco di Amelia, dove aveva il suo buen retiro. La cittadina divenne, così, la sua ‘’Isola di Caprera’’.