Il dibattito
Il Pci di Berlinguer non era manettaro ma anti-craxiano
La replica di Fabrizio Cicchitto contiene alcuni spunti di analisi che sarebbe un peccato non cogliere per cercare di definire meglio i punti di dissenso (su dettagli per così dire filologici) rispetto alla condivisione della censura definitiva del giustizialismo come malattia distruttiva che ha prodotto una devastazione trentennale della democrazia dalla quale ancora non si esce.
La “diversità” è un punto forte della stagione berlingueriana e tracce se ne ricavano in certa misura anche in Togliatti. «Noi siamo un organismo politico; siamo però un organismo politico di tipo speciale», diceva. La diversità era in lui declinata con vocaboli vagamente religiosi (come vocazione, entusiasmo, causa, devozione, disciplina, serietà), utili per celebrare «quei nostri militanti che hanno dedicato alla lotta del nostro partito tutta la loro esistenza». Un concetto totalizzante del partito affiorava anche in Togliatti leader terzinternazionalista, che pure non disdegnava moderatismo, senso del compromesso, laicità. «Non basta essere buoni politici. Tutti dicono oggi che noi siamo i migliori politici, i politici puri, e così cercano di spiegare i nostri successi. Orbene, se siamo buoni politici, non lo so; so però che, se lo siamo, è perché abbiamo tenuto e teniamo fede in ogni istante a princìpi che trascendono la politica, perché siamo in ogni istante fedeli a quella vocazione che spinse e spinge milioni di uomini a vivere e lottare». La diversità come principio di trascendenza si coniugava in Togliatti con la pienezza dell’immanenza e cioè il realismo, l’aderenza ai tempi, il richiamo al principio istruttivo dei rapporti di forza.
Anche in Amendola compariva il riferimento “alla nostra vecchia morale comunista, severa e rigorosa”. Lucio Magri ricordava in una pagina del suo libro che, in occasione del celebre convegno degli anni Sessanta sulle tendenze del capitalismo italiano, quando incrociava Amendola a Botteghe Oscure veniva rimbrottato per non essere un vero bolscevico. La maschera della identità serviva ad Amendola per coprire degli affondi verso la sinistra sindacale e politica (Pci e Psi, da Ingrao e Trentin a Lombardi). Nella III Conferenza dei comunisti di fabbrica (Genova 1965) egli scriveva: «La richiesta di case, scuole, ospedali parve troppo moderata, socialdemocratica, si disse già allora, di fronte a grandiosi progetti di transizione al socialismo, tanto moderata che ancora oggi, quindici anni dopo, case scuole ed ospedali, restano obiettivi non ancora raggiunti».
Il problema non pare dunque la diversità in sé, ma le conseguenze che dalla copertura identitaria si traggono nella concreta condotta politica. In Amendola (in questo poggia la sua notevole differenza rispetto a Napolitano, che utilizza altri linguaggi, diverse metafore) l’identità serviva come scudo per lanciare svolte, discontinuità, anche eresie. Negli anni 80 la diversità divenne in Berlinguer una formula di chiusura e di regressione culturale dal politico al sociale che in quanto tale venne combattuta dentro il Pci, non solo dai miglioristi. L’esito della diversità non fu ancora il giustizialismo (il Pci sostenne nel referendum l’abolizione dell’ergastolo, cioè l’opposto di quanto vorrebbe un populismo manettaro alla Travaglio), ma una profonda frattura verso il Psi che venne sorretta da un impianto di tipo tardo-operaista (referendum sulla scala mobile) in polemica contro la “modernità” craxiana.
Negli anni del secondo Berlinguer si ebbero mutamenti nelle analisi, altri paradigmi concettuali furono impiegati nella comprensione dei processi sociali scaturiti dal tempo della ristrutturazione tecnologica del capitalismo. E però il miope e suicida “duello a sinistra” non prevedeva l’affidamento alle procure del compito di risolvere con le manette la questione socialista. C’era nel Pci degli anni Ottanta un conservatorismo istituzionale e una enfasi operaista di cui “i ragazzi di Berlinguer” si sbarazzeranno con estrema disinvoltura sposando il nuovismo referendario, la militanza giustizialista con il popolo dei fax e dei telepredicatori, il mito delle privatizzazioni, il vangelo della precarietà.
Cicchitto vede una continuità di tutto ciò con la cultura della diversità denunciata come matrice di un antisocialismo irriducibile. In Togliatti la diversità riempiva la dimensione mitica, aveva una collocazione metapolitica. In Berlinguer divenne invece una immediata strategia politica con le inevitabili ricadute in termini di isolazionismo ed estraneità valoriali rispetto al gioco politico. Con i limiti e gli schematismi delle letture moralistiche che sono diventate dominanti nella seconda stagione berlingueriana, le scelte tragiche successive (rifiuto di ogni salvataggio del sistema dei partiti in nome del repulisti giudiziario-referendario) non sono però imputabili al leader scomparso e ricadono solo sugli eredi che certo hanno camminato su un terreno di cultura politica reso friabile già negli anni Ottanta.
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