Quando è arrivata la notizia della morte di Berlinguer, Bettino Craxi era a Madrid. Era Presidente del Consiglio. Con lui c’era il suo capoufficio stampa che era Antonio Ghi­relli. “Me lo ricordo benissimo – racconta – Craxi ebbe una reazione incredibile: scoppiò a piangere”.

Craxi aveva affetto per Berlinguer?
No, direi di no. Direi che lo detestava. I due si detestava­no reciprocamente e in modo completo. Però ci doveva esse­re qualcosa che li univa. In fondo non si danneggiarono mai troppo l’uno con l’altro. E poi la politica è così, certe volte è inspiegabile. Fatto sta che Craxi pianse.

Si detestavano?
Sì, è una vecchia e incancellabile tradizione nella sinistra. Nenni detestava Pertini. Pertini detestava Craxi. Ingrao dete­stava Amendola. E ci sono decine e decine di altri casi: è stata la regola.

Antonio Ghirelli oggi ha ottantadue anni. E una splendida biografia. Si è iscritto al Pci clandestino a Napoli, nel ‘42. Conosceva a quell’epoca il giovane Giorgio Napolitano, e lo incitava a iscriversi pure lui. Napolitano si iscrisse l’anno dopo. Ghirelli prima partecipò a varie insurrezioni antitede­sche, poi passò le linee e raggiunse gli americani, che erano sbarcati a Salerno, nel settembre del ‘43. Si unì alla quinta armata e fu addetto ai rapporti coi partigiani del nord. Iniziò allora a fare il giornalista, faceva la radio, notizie dal fronte, in diretta. Era una radio per i partigiani. Dice che il mestiere lo imparò tutto lì. Poi dopo la liberazione lavorò in molti gior­nali di sinistra.

A Bologna, a Milano, lavorò anche all’Unità, con Pajetta, e infine andò a Roma a Paese Sera. Con Cohen e con Mario Meloni, in arte (successivamente) “Fortebrac­cio”. Dice che furono grandi giornalisti e grandi direttori. Nel ‘56 con altri intellettuali uscì dal partito per via dell’invasio­ne dell’Ungheria da parte dell’armata rossa sovietica. Però non volle andare a lavorare nei “giornali borghesi” e allora si inventò il lavoro di giornalista sportivo. È stato per un paio di decenni tra i migliori e più celebri giornalisti sportivi italiani. Forse il numero 1. Diresse Tuttosport e poi il Corriere dello Sport. Tornò al giornalismo politico negli anni settan­ta, da socialista. Diresse il Mondo e il Globo poi fu portavo­ce del presidente Pertini, successivamente di Craxi, più tardi fu direttore del Tg2 e infine dell’Avanti. Dice che nei primi anni ottanta fece di tutto con il suo amico Chiaromonte, dirigente di primissimo piano del Pci, per organizzare un incontro riservato e serio tra Craxi e Berlinguer. Non ci riuscirono . Craxi non ne voleva sapere e Berlinguer neppure. C’era un abisso di carattere tra i due.

Perché Craxi aveva un grado di sopportazione così basso per i comunisti?
Io credo che fosse una cosa antica. Risaliva al ‘48. Craxi era un ragazzino e suo padre, che era stato viceprefetto socia­lista di Milano dopo la liberazione, e poi prefetto di Como, si presentò alle elezioni per il Fronte, cioè per la lista social­ comunista. A Milano i socialisti erano più forti dei comunisti. Raccoglievano più voti. Però i comunisti erano molto più organizzati. E così i comunisti riuscirono a lavorare molto meglio sulle preferenze e elessero tutti i loro. Il papà di Craxi restò fuori, e fu molto deluso. Bettino visse male questa delusione di suo padre e da allora decise che gliela avrebbe fatta pagare ai comunisti. Secondo me l’origine dell’ostilità è que­sta. Poi naturalmente c’erano tutte le ragioni politiche che si conoscono. Però l’ostilità era fortissima e istintiva. Craxi si rifiutava persino di conoscere il partito comunista. Non vole­va saperne delle differenze interne, degli amendoliani, dei filo-socialisti. Io provavo a spiegargliele queste cose. Lui non sentiva. Per lui era tutto uguale: il Pci era il Pci e basta. Un comunista italiano per lui era come un comunista russo.

Cosa pensi di Berlinguer?
Era potenzialmente un cattolico più che un comunista. In lui il momento morale, il momento etico era largamente prevalen­te su quello sociale. Io ebbi una grande simpatia per lui. Anche per la spinta democratica che diede al suo partito. Fu una scel­ta giusta e autentica, che io apprezzai molto. Era molto inte­ressante il suo lavoro. Invece mi deluse la sua politica dopo il ‘76. Soprattutto la scelta dell’austerità. Mi parve una scelta marxisticamente scandalosa. La società italiana si avviava verso la meta postindustriale, era evidente la fine della società fordista, e io non capisco cosa c’entrasse l’austerità. Non aveva posto l’austerità in quella situazione. Io ricordo il discorso del­ l’Eliseo, quando Berlinguer spiegò agli intellettuali perché bisognava scegliere l’austerità. Mi colpì penosamente quel dis­corso. Io credo che lo sviluppo sia il contrario dell’austerità. Lo sviluppo è benessere diffuso, è una moltiplicazione di ricchez­ze. Io guardo con simpatia al comunismo cinese. È basato sulla ricerca dello sviluppo. Penso che nel socialismo ci sia un ele­mento di giacobinismo che è fondamentalmente giusto. I gran­di processi storico-economici e storico-politici vanno guidati. Quando è cambiato il mondo? Quando è nata la modernità? Con l’illuminismo, non con la rivolta delle plebi. Con l’ideo­logia della ragione. E quella ideologia ti dice che la ricerca del profitto e del successo personale appartiene alla natura del­l’uomo, e che il compito della politica non è di impedire quel­la ricerca, anzi deve assecondarla, però deve guidarla e rego­larla: evitare che diventi un fattore di violenza e di instabilità. Il compito della politica è di regolare quella ricerca di succes­so dentro un quadro di solidarietà sociale.

È l’austerity l’errore fondamentale di Berlinguer?
Fu un errore anche aver accettato quel governo che Moro gli presentò nel marzo del 1978, poche ore prima di essere rapito. Il governo Andreotti, il primo della solidarietà nazionale. Era un governo di destra. Berlinguer doveva respingerlo: Invece accet­tò e poi dopo un po’ si accorse che non era possibile restare in quella gabbia, ma ne uscì malissimo, con grande confusione, e nell’80 finì a fare il comizio davanti ai cancelli della Fiat. Credo che l’ultimo Berlinguer avesse proprio sbandato.

Cosa ti disse Craxi di Berlinguer, quando seppe che era morto?
Non disse niente. Parlò solo con le lacrime. Lui era uno di poche parole. Craxi era una brava persona, un bravo compagno. Non sono vere le cose che si dicono su di lui. Mi ricordo una volta che andammo in Argentina per l’insediamento di Alfon­sin, il nuovo presidente, il leader dei radicali. Un certo pome­riggio c’era una riunione ufficiale con Craxi in un teatro. Era alle cinque del pomeriggio. Io andai un’ora prima per vedere com’era fatto il posto, vedere se iniziava ad arrivare qualcuno, eccetera. Trovai il teatro stracolmo. E quando entrò Craxi ci fu una standing ovation e una emozione incredibile. Chiesi: ma come mai tanta popolarità per Craxi? Mi spiegarono che Craxi durante la dittatura li aveva aiutati in tutti i modi, sempre, si era occupato moltissimo dell’Argentina. Mi ricordo anche un incontro con Reagan. Incontro ufficiale, Reagan, Craxi e il ministro degli esteri nostro, Andreotti. Craxi chiese a bruciapelo a Reagan: “quanto deve durare ancora Pinochet?”. Ci fu grande imbarazzo. Poi Reagan chiese: “E cosa dovremmo fare, secondo lei?”. Craxi disse che bisognava appoggiare Frei, che con Frei si poteva ottenere l’appoggio della Chiesa e che la Chiesa aveva una influenza su Pinochet. Forse Reagan gli diede retta, perché due anni dopo Frei era presidente del Cile.

Se Craxi e Berlinguer si fossero parlati sarebbe cambiato qualcosa per la sinistra italiana?
Certo, sarebbero cambiate moltissime cose. Fu un dram­ma la loro incomunicabilità. Gli altri dirigenti dei due partiti non avevano la loro statura. Non potevano fare le cose che avrebbero potuto fare loro.

Chi era Berlinguer?
Non era tanto un politico quanto un moralista. Profonda­mente democratico. Un democratico nel senso associazioni­sta, non nel senso marxista del termine. Poi era un testardo, un uomo tenace, duro, un uomo dritto, “vertical”, come dico­no gli spagnoli. Lo ho ammirato molto ma non ho condiviso quasi nulla delle cose che faceva. Un uomo carismatico, ma carismatico moralmente non politicamente: come padre Pio.

Quindi lui non aveva molto a che fare con Togliatti?
Assolutamente no. Niente. Togliatti era politica pura. Come diceva Croce: “Totus politicus”. Togliatti ha fatto l’am­nistia ai fascisti, ha fatto votare al Pci il concordato, ha fatto la svolta di Salerno, con un discorso storico al teatro Moder­nissimo, accettando il governo Badoglio quando nessuno lo voleva accettare. Ed è sbarcato a Selemo con in valigia i Qua­derni dal carcere di Gramsci, e quindi già chiara l’idea di rifondare da capo e di democratizzare il Pci, e di staccarlo daJla Russia e di destalinizzarlo. Togliatti era un politico geniale. Lui quando arrivò qui in Italia sapeva tutto dell’Ita­lia, del fascismo, della politica nazionale. Quando Pajetta occupò la prefettura di Milano, Togliatti gli telefonò e disse: “E adesso cosa fai? Hai un disegno? Se non ce l’hai lascia stare l’occupazione e torna in federazione”. Era un grande stratega, non era un propagandista.

Però Togliatti accettò l’invasione dell’Ungheria, mentre Longo e Berlinguer condannarono l’invasione della Cecoslovacchia…
Sì, ma tu devi tenere conto del fatto che ciascuno di noi ha la cultura dei suoi quarant’anni. Non si può chiedere a me di capire la musica rap, io sono rimasto ai Beatles e scrivo con la macchina da scrivere… Togliatti era uno del suo tempo. Aveva fatto 20 anni in esilio, era sopravvissuto allo stalinismo. Quello era Togliatti. Chi non ha conosciuto gli anni ‘30 non può capire Togliatti. Cosa poteva fare Togliatti allora, nel ’56?

Nenni però ruppe.
Ma Nenni doveva preoccuparsi del partito socialista non della responsabilità. Mi colpisce ancora oggi quella cultura, del Pci. Erano due cose diverse. Come si poteva rompere gui­dando il Pci?

Di Berlinguer cosa salvi oggi?
Salvo la sua straordinaria buona fede. Salvo il suo cari­sma, che fu il ca risma di un educatore. Berlinguer fu un modesto politico ma un grande educatore, fu una specie di mazziniano, ha creato un tipo di comunista che non era più stalinista, ma era appassionato, devoto alla causa.

Fu uno sconfitto?
Non si è mai posto il problema di vincere. Aveva una misu­ra del mondo molto diversa da quella di un rivoluzionario. Il rivoluzionario ha il dovere di vincere, il moralista no.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.