Con Il nostro Berlinguer, un album di racconti e immagini del più amato leader comunista italiano, il giornalista Fabrizio Rondolino ci consegna l’esperimento di un genere nuovo, che unisce documenti e testo, scatti rubati e foto d’archivio. Un lavoro poderoso – 350 pagine, edito da Rizzoli – che sembra voler consegnare, come in una capsula del tempo, i ricordi migliori di una storia unica e irripetibile alle generazioni nate dopo Berlinguer.

Raccontare la storia politica con le immagini è una scelta stilistica coraggiosa.
Di mio in questo libro c’è poco, c’è stato un lavoro di montaggio, una ricerca di fonti e di foto eloquenti. Alcune iconiche, altre sconosciute e particolari. Lo definisco un documentario su carta.

Il documentario su una figura unica, nella storia della politica. Che non assomiglia a nessun’altra, che si fatica a inserire una categoria…
Era un ribelle. Questa è la sua prima categoria. Un ribelle che si è poi ribellato anche alle definizioni, alle compressioni della storia. Non ha avuto una formazione marxista classica, e anzi ha avuto una formazione irregolare, non lineare.

A scuola non brillava.
A scuola non andava bene, ma leggeva sempre tanto. Da solo. Di tutto. Lo zio Ettorino, un anarchico, lo affascinava. Fu lui a parlargli per primo di idee rivoluzionarie, mentre il papà, Mario, era stato tra i fondatori del Partito Sardo d’Azione. E quindi senatore socialista dal ’48 al ’68. Una famiglia dalla storia laica, mazziniana, risorgimentale.

Però nessun comunista, in famiglia. E men che meno tra i cugini Cossiga…
Da comunista, è autodidatta. Legge da adolescente il Manifesto del Partito Comunista. Da sardo, è attratto dalla figura di Gramsci, di cui però si iniziano a pubblicare i Quaderni solo dopo il 1948. Si forma con Kant e gli illuministi francesi. Una serie di letture significative, a partire da Kant. Perché tutti i comunisti amano Hegel. Lui no. E questo secondo me influirà sul suo modo di essere laico, tollerante e ironico. Le cifre del Berlinguer anche più maturo.

Perché diventa comunista?
Non tanto perché fosse comunista. Anche perché la Sardegna nel ’43 era un mondo a sé, non c’erano stati i tedeschi, non c’erano i partigiani. E allora rispetto a quella massa di lavoratori, di poveri, di analfabeti che emergevano dalle rovine della guerra, Enrico Berlinguer capì che doveva unirsi alla più grande forza popolare.

E fa della ribellione una rivalsa.
Il suo era un sentimento di ribellione contro la propria famiglia e la propria classe sociale. Poi c’è da tenere conto delle vicende della vita: gli muore la madre quando era ancora piccolo. E la sua spinta a uscire dal guscio della famiglia diventa disperata e urgente. Capì che la ribellione di uno non porta a niente, quella di tanti cambia la storia.

Quando inizia a fare politica? Nel libro troviamo bellissime foto di lui da ragazzo.
Con il carcere. Nel 1944 lui è a capo della sezione giovanile del Pci di Sassari. Ha 21 anni e si nota subito la grande energia, lo nominano segretario dei giovani. Pochi giorni e si trova alla testa di un assalto a un forno, seguito da violenti incidenti. Lui viene arrestato in casa, in quanto segretario dei giovani comunisti. La cosa era seria: vigeva la legge marziale, rischiò la pena di morte.

Che successe?
In carcere lesse molto e venne riconosciuto dai detenuti come il giovane politico che aveva messo in gioco la sua vita per dare il pane ai poveri. Quando uscì era già rispettato da tanti…

La vulgata dice che “si iscrisse giovanissimo alla Direzione”.
Non è così, appunto. Fece una bella gavetta. Pochi mesi dopo il carcere comunicò alla famiglia di voler dedicare la vita al partito, facendo attività politica tout court. Anche suo padre era parlamentare, sì, ma per i borghesi l’attività professionale andava preservata, lo studio legale Berlinguer rimase sempre attivo a Sassari. Lui decise di voltargli le spalle, di chiudere con il passato e di sostituire suo padre con Togliatti.

Una adozione platonica, una affiliazione?
Sì, ma fortissima. Mario Berlinguer e Palmiro Togliatti erano stati compagni di scuola, per un anno, quando il padre di Togliatti si spostò a Sassari per lavoro. Avevano legato e quando Togliatti era nel ’43 a Salerno, ecco che Mario presenta suo figlio Enrico a Togliatti. Che se ne innamora: ci vede l’animo ribelle in un figlio dell’alta borghesia, la miscela perfetta per quello che Togliatti stava cercando.

Cosa stava cercando?
Di conquistare i moderati e i borghesi. Di liberarsi dei partigiani armati, dei più facinorosi. La “generazione di ferro” cresciuta nella durezza della Resistenza e dell’esilio non andava più bene. Quindi cerca di acquisire, di “collezionare” il nipote di Giolitti, il figlio di Amendola, Maurizio Ferrara – il papà di Giuliano – che era a sua volta figlio di un deputato liberale, e il figlio dell’avvocato Berlinguer, azionista. Un quadrifoglio di talenti che estendevano il loro carisma su fasce elettorali più ampie del passato.

Per cosa si mette in luce il giovane Enrico?
Per due cose: l’impegno sul lavoro, con quattordici-sedici ore di lavoro continuativo, e la discrezione. Enrico scriveva discorsi, intesseva relazioni, studiava tantissimo. Un lavoro indefesso, instancabile. Togliatti da Salerno porta con sé a Roma il giovane Enrico. E appena nel 1945 si libera Milano, Togliatti lo manda lì per guidare i giovani comunisti del Nord. Con il compito non scritto di “normalizzare” il Pci, di smilitarizzare il fronte. Da lì a pochi mesi diventa il capo dei giovani comunisti italiani.

Una carriera spedita, un leader amato da tutti…
Ecco, questo no. Ha avuto almeno due momenti di brusca frenata. Nel 1956 dovette lasciare la Fgci ed uscì dalla Direzione del Pci: dopo l’invasione dell’Ungheria, si tenne una concitata assemblea dell’organismo dirigente; da un verbale molto stringato che ho potuto esaminare, si legge che il giovane Berlinguer ebbe il coraggio di difendere – lui solo, insieme a Di Vittorio – gli insorti di Budapest che si opponevano alla Russia. Apriti cielo. Lo mandarono a coordinare la scuola di formazione delle Frattocchie, praticamente in ritiro spirituale.

E il secondo stop?
Quando viene sospettato di ingraismo. Siamo nel 1966, lui è il responsabile dell’organizzazione e viene mandato a concludere il congresso della Federazione di Roma. A Botteghe Oscure si stava consumando uno scontro molto violento tra amendoliani e ingraiani. La linea della Direzione è di dare una bastonata agli ingraiani in modo definitivo. Lui va con questo mandato ma, inaspettatamente, fa di testa sua. E riesce a mettere d’accordo i litiganti. Realizza un compromesso, una convergenza tra le due correnti in lotta tra loro. Si infuriano Mario Alicata e Giorgio Amendola, che vanno dal segretario Longo e fanno convocare Berlinguer. La cosa ha conseguenze molto serie. Pochi mesi dopo c’è il congresso nazionale: tutto il gruppo dirigente viene confermato salvo Enrico Berlinguer, che per essere umiliato viene spedito in Sardegna a fare il vice segretario regionale.

Il Vaffa del Pci a Berlinguer. Da cui però, come dopo ogni caduta, Enrico Berlinguer si è saputo riprendere.
Le punizioni nel Pci non duravano mai troppo a lungo. E tutti gli riconoscevano un equilibrio di carattere raro: era un partito di prime donne, lui sapeva mediare con tutti. Ed aveva questa vocazione all’unità di intenti che seppe portare fuori, nel rapporto con la Dc.

Quello con Craxi fu uno scontro vero, invece?
C’era una difficoltà caratteriale, ma tra i due secondo le mie ricerche c’era grande stima. Si consultavano più spesso di quanto dicessero. Si appassionavano come ragazzini, nelle loro conversazioni, soprattutto sulla politica internazionale. Sulla quale c’era anche una intesa profonda. E sulla giustizia, si capivano più di chiunque altro.

Sulla giustizia?
Nel 1983 a Torino scoppiò una piccola tangentopoli ai danni di una giunta Pci-Psi. Le delegazioni dei due partiti, guidate da Craxi e da Berlinguer, si incontrarono fuori dai riflettori, in quella scuola delle Frattocchie che per Enrico era così famigliare. Stilarono un documento congiunto in cui Berlinguer fece scrivere: “Si invita la magistratura ad evitare strumentalizzazioni nelle inchieste in corso”.

Però nessun fronte comune verso Palazzo Chigi?
Berlinguer non muore da isolato profeta come qualcuno vuole far credere. Morì avendo in testa una strategia che puntava a dare al Paese una nuova stabilità all’insegna del progressismo, e su questa strada dialogò a fasi alterne con il Psi e con la Dc. E per la verità anche con i repubblicani di Spadolini, che per lui, di origine mazziniana, dovevano stare nell’albo di famiglia.

Un accordo sfiorato e mandato in aria dal fato.
Poco prima del comizio di Padova, dove morì, incontrò De Mita per dirgli: “Sono disposto a dare i voti del Pci se eliminate il referendum sulla scala mobile e proviamo a fare una maggioranza temporanea Dc-Pci-Pri fino alle prossime elezioni”.

In chiave antisocialista, quindi.
Perché la battaglia faceva leva sulla scala mobile. Ma c’era più stima di quanta non si pensi, con Craxi. Quando Minoli chiede a Berlinguer cosa pensava di Craxi risponde: “Un giocatore di poker”. Si pensò a un insulto, tutt’altro. Enrico era appassionato di poker, da ragazzo aveva guadagnato anche discrete somme, al tavolo da gioco. Per lui essere un bravo giocatore di poker era il miglior complimento possibile.

Poi la morte, improvvisa.
Sopraggiunta tagliando in due la storia della sinistra italiana, che dopo Padova non ha più trovato un nuovo Berlinguer.

Berlinguer non ebbe il tempo di indicare un successore, o sì?
Disse più volte, nell’83-84, che non voleva fare il segretario a vita, ma non indicò mai un successore. Il cambio sarebbe presumibilmente avvenuto nell’87, quando era previsto il congresso.

E perché dopo un gigante come Berlinguer si scelse un chimico ligure di seconda fila, Alessandro Natta?
Natta fu una scelta di continuità e insieme di transizione, vista l’età.

Perché hai deciso di affidare la tua narrazione di Berlinguer alle immagini? Un mezzo che riesce a parlare meglio alle nuove generazioni?
Ho affidato la mia narrazione anche, non solo alle immagini. E oltre alle foto ci sono volantini, tessere, memorabilia: un baule dei ricordi per i meno giovani, un’esperienza spero nuova per i più giovani.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.