La povertà è aumentata. Si è trasformata diversificandosi e trascendendo la sola dimensione materiale. Insomma, è diventata una povertà stratificata. Alimentare, sanitaria, educativa, culturale. Si tratta della cosiddetta multidimensionalità della povertà: non si può intervenire su una parte, trascurando tutte le altre.

I dati Istat mostrano come negli ultimi lustri siano cresciute povertà assoluta e relativa. Quest’ultima è passata da un valore di circa l’11.5 per cento del 1997 a quasi il 15 del 2021, così come la povertà assoluta dal 3 al 9.4 per cento. È evidente quanto il fenomeno sia molto lontano dall’essere debellato.

Un’ipotesi, questa, che viene confermata anche dai dati dell’ultima ricerca Iref/Acli, da cui emerge che il rischio di povertà relativa cambia in base alle caratteristiche socio anagrafiche degli utenti: le famiglie monoreddito sono 5,4 volte più esposte rispetto a quelle bi-reddito, i carichi familiari aumentano di circa quattro volte il rischio di povertà relativa, stessa probabilità si registra passando da un uomo a una donna. Il rischio scende a tre volte circa per i giovani rispetto ai vecchi, per gli stranieri rispetto agli italiani, per i meridionali rispetto a chi risiede al nord. Si vede, quindi, quanto la povertà sia un fenomeno sociale complesso che non dipende soltanto dal soggetto, ma anche da una serie di caratteristiche di contesto.

Di sicuro la povertà non è una colpa, o la conseguenza diretta della volontà di lavorare o meno. Infatti i dati Iref 2023 mostrano una elevata incidenza dei cosiddetti working poor, pari al 44 per cento dei poveri relativi. La soluzione a una povertà ormai strutturale richiede una risposta politica adeguata, tesa anche a prevenire il problema.

In questi anni i governi hanno risposto all’aumento della povertà attraverso strumenti come il Reddito Minimo di Inserimento, il Sostegno per l’Inclusione Attiva, il Reddito di Inclusione, il Reddito di Cittadinanza. Oggi, purtroppo, dobbiamo registrare con l’approvazione del Dl 48/23 che modifica il Reddito di cittadinanza, un passo indietro che divide i poveri in due categorie e annulla il carattere universalistico della misura, trasformandola in uno strumento categoriale rivolto soltanto ad alcuni tipi di famiglie con all’interno minori, disabili, over 60. Al resto della popolazione, i cosiddetti occupabili, viene fornito, per un solo anno, il Supporto per la Formazione e il Lavoro (SFl) molto meno generoso dell’Adi e incerto nella sua attuazione.

Da una prima valutazione della nuova misura di contrasto alla povertà, la platea dei poveri aumenterà e organizzazioni sociali e del volontariato saranno chiamati a svolgere il complicato compito, insieme alle istituzioni territoriali, di presa in carico. Il Terzo Settore svolge da sempre molteplici attività e servizi in una funzione integrativa, spesso anche sostitutiva, del pubblico. Con il tempo ci si è resi conto di quanto un approccio sinergico e condiviso tra Pa e non profit fosse persino indispensabile. È maturato anche nell’approccio culturale, organizzativo e di gestione della Pa, il bisogno di un cambio di passo.

L’ultima occasione per cambiare prospettiva, dopo la legge 328/2000, è stata la riforma del Terzo Settore, che ha assegnato un ruolo di primaria importanza alla co-progettazione e co-programmazione. Agli Enti del Terzo Settore (Ets) è chiesto non solo di essere meri esecutori di servizi, ma anche ideatori delle azioni che sul territorio guidano le politiche sociali. L’amministrazione condivisa richiede agli ETS anche una capacità di visione politica e di progettazione puntuale: dovendo “co-governare” i territori insieme alle pubbliche amministrazioni, gli enti devono sviluppare maggiormente la loro politicità, oltre alle note capacità organizzative. Si stanno rilevando alcuni limiti da superare, con le PA che coinvolgono poco e male gli Ets nel processo avviato con la riforma.

Appare chiara l’urgenza dell’avvio di una nuova fase. Occorre creare insieme le condizioni di fiducia reciproca adatte alla realizzazione di un nuovo sistema di infrastrutturazione sociale che metta in rete tutti gli attori del territorio, dalle Pa ai Centri per l’Impiego, passando per il Terzo Settore. Bisogna investire sui servizi, garantire a tutti i Livelli Essenziali delle Prestazioni, immaginando anche una possibile integrazione con quelli sanitari. A tal fine, non è sufficiente il solo lavoro di rete del Terzo Settore. Serve piuttosto una nuova alleanza tra cittadini, comunità, società civile, Comuni e Stato centrale. Anche il quadro delle riforme avviate – non autosufficienza, Pnrr, Case della Comunità – deve trovare spazio in un disegno più complessivo di realizzazione che, temiamo, potrebbe essere messo in discussione dalla riforma dell’Autonomia differenziata.

Si potrebbe aprire una stagione nuova dove opportunità e risorse potranno trovare spazi di reale condivisione. Si tratta ora di non sprecare un’occasione storica che chiama ognuno a precise responsabilità.

Antonio Russo

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