In una società dove la solitudine è la condizione esistenziale di molti, le persone sono alla ricerca di punti di riferimento credibili. Si contesta tutto: la politica il calcio, addirittura i medici e gli insegnanti, ma se c’è qualcosa che nessuno mette in discussione è proprio il Terzo Settore. Le piccole associazioni così come le grandi reti nazionali sono presenti in modo capillare nelle aree metropolitane e nei paesini di montagna. I volontari non si sono mai fermati durante la pandemia, anzi hanno adattato la risposta al bisogno. I volontari ci sono nelle emergenze e nella quotidianità.

Raccontare quello che funziona, in Italia, non fa notizia. Per questo motivo trovo molto coraggiosa la scelta de Il Riformista di dedicare ogni giorno una pagina al Terzo Settore, alternando storie di eccezionale normalità che rappresentano i mille volti del non profit. Lo scopo è dare loro una vetrina, ma soprattutto aprire un dibattito culturale attorno a temi, valori, e normative. Esiste un rapporto molto stretto tra i modelli organizzativi che l’associazionismo ha assunto nel corso dei decenni nel nostro Paese, e i territori con i loro variegati bisogni, peculiarità culturali, sociali ed economiche. Non è la stessa cosa operare in una grande area metropolitana, e in una zona rurale.

Il Terzo Settore conta in Italia quasi cinque milioni e mezzo di volontari, poco meno di un milione di lavoratori e pesa quasi il 5% del prodotto interno lordo grazie alla sua capacità di generare beni e servizi. Ci sono i volontari stabili, coloro che insomma prestano la loro opera con costanza in un ente ben preciso, e poi un numero crescente di persone che in modo occasionale partecipa a iniziative ambientali, culturali, collette alimentari e farmaceutiche. Sono soprattutto i giovani ad essere attratti da questa modalità, ed è un fatto nuovo che va tenuto in conto. Il Terzo Settore è un modello sociale consolidato, basato sulla solidarietà e sul benessere delle comunità presenti e future, ma è anche un modello economico stabile su cui innestare lo sviluppo del Paese. Questo ultimo aspetto è molto sottovalutato nell’opinione pubblica, sebbene un occhio più attento sia in grado di riconoscere oltre alle associazioni di promozione sociale, alle organizzazioni di volontariato, anche le forme organizzative più articolate come le fondazioni, le società di mutuo soccorso, le imprese e le cooperative sociali.

È un errore confondere l’assenza di lucro con l’assenza di produttività. Esemplificativi sono i moltissimi ambiti in cui opera il non profit. Sociale, sanità e servizi alla persona, Rsa, scuole materne ed asili nido, formazione professionale, cultura, sport,  contrasto alla dispersione scolastica, agricoltura sociale, ricerca scientifica, cooperazione internazionale allo sviluppo, tutela dei minori e delle donne vittime di violenza, protezione dell’ambiente e degli animali, promozione del patrimonio storico. Un sistema che vive certamente di impegno volontario – il cuore pulsante del nostro Paese – ma che ha anche bisogno di lavoratori con professionalità, competenze tecniche e di comunicazione sempre più avanzate, e necessita di spazi, mezzi e innovazione per svolgere la propria attività. Si dice “terzo” non perché debba essere inteso come un’isola, scollegato rispetto al mondo dell’impresa o delle Istituzioni.

Anzi, la Riforma del Terzo Settore – che è un unicum nel panorama europeo per il suo approccio organico – favorisce un legame sempre più stretto tra profit, non profit e pubblica amministrazione. Si sta inoltre facendo strada un nuovo rapporto tra imprese e terzo settore. Donazioni aziendali, volontariato di competenza, welfare aziendale, lavoro e disabilità. Il bilancio sociale è uno strumento che collega profit e non profit nel racconto esterno di sostenibilità. E non a caso persino il fisco, che insomma non è generalmente visto di buon occhio, può assumere un volto buono in ragione della premialità di comportamenti virtuosi. Da qui discendono alcune norme come la legge anti-spreco o il social bonus.

Il principio costituzionale di sussidiarietà non deve essere inteso come disimpegno del pubblico nei confronti del privato sociale. Non a caso l’articolo 55 della riforma parla di co-programmazione e co-progettazione. Questo approccio richiede maturità e un cambio di mentalità da ambo le parti. Decidere insieme non è la politica dello scaricabarile e della autoreferenzialità. Sono i bisogni della nostra società a richiedere un approccio sistemico. Persino nella definizione di povertà c’è un prima, dove il povero si vedeva in modo chiaro, mentre oggi c’è la “solitudine della porta accanto” a cui basta pochissimo per cadere. Certo, il Terzo Settore questo lo ha capito ben prima della politica, adattando il suo intervento sul fronte degli aiuti materiali e della presa in carico personalizzata.

Questo rapporto rinnovato tra PA e società civile si dovrebbe vedere anche nelle politiche urbane. In alcuni casi si sono fatti passi in avanti, basti citare Milano, Genova, Roma, Bari rispetto alle food policies, ma il PNRR non ha senso se non diventa un volano per intercettare riqualificazione urbana e ripensamento dei luoghi in base alla loro funzione.

Maria Chiara Gadda

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