Siamo ormai a più di sette mesi dal giuramento del Presidente degli Stati Uniti, avvenuto il 20 gennaio scorso in una Washington gelida, tanto da costringere il servizio di sicurezza a spostare la cerimonia all’interno di Capitol Hill. Fu un’insolita inaugurazione presidenziale, ma perfettamente in linea con il personaggio: Donald Trump.

La figura di Trump è tra le più studiate e controverse degli ultimi decenni. Se vogliamo cercare affinità con i suoi predecessori, i riferimenti più immediati sono Richard Nixon e Ronald Reagan. Non è un caso che, nello Studio Ovale, Trump abbia voluto far svettare il ritratto proprio di Reagan. Nixon rappresenta per molti repubblicani il volto tragico di un’epoca, travolto dallo scandalo Watergate. Reagan, al contrario, incarnò la rinascita del partito durante gli anni ’80, portandolo a un’egemonia culturale e politica ancora oggi rimpianta da molti conservatori. Gli anni ’80 furono un crocevia di eccessi, speculazione, successo e retorica vincente: esattamente l’immaginario nel quale Trump si muove con disinvoltura. Si veste come negli anni ’80, parla come allora, evoca simboli e colonne sonore di quel tempo. Le sue cravatte larghe, le giacche con spalline esagerate, le citazioni pop da Hannibal Lecter alla New York degli yuppie, lo collegano direttamente a un pubblico nostalgico e affamato di certezze.

È negli anni ’80 che Trump, immobiliarista audace e spavaldo, conobbe il suo apice imprenditoriale. Ed è quell’epoca a cui sembra voler restituire oggi dignità e potenza, replicando su scala politica ciò che allora incarnava nel mondo degli affari. Trump ha dichiarato guerra agli stessi nemici che Nixon e Reagan faticarono a contenere: i grandi giornali liberal dell’East Coast, come il Washington Post e il New York Times, e le élite intellettuali delle Ivy League, oggi arroccate in una resistenza ideologica al trumpismo. Ma laddove Reagan fu un attore di seconda fascia diventato presidente amatissimo, Trump – immobiliarista non certo tra i maggiori – è riuscito in qualcosa di simile: scaldare il cuore dell’America profonda, che si rivede nei suoi eccessi, nei suoi slogan, nella sua visione binaria del mondo.

In questo schema, il rapporto con Putin assume una dimensione parallela a quella che vide Reagan confrontarsi con il Cremlino. Reagan non mise mai piede a Mosca, ma nei summit di Reykjavik, Ginevra, Malta, seppe negoziare da posizione di forza, fino alla fine della Guerra Fredda e alla caduta del Muro di Berlino. Trump ragiona con quella stessa mentalità: dura, semplificata, funzionale a una narrazione vincente. E forse proprio questo lo rende comprensibile al suo elettorato. Gli americani, a differenza degli europei, non temono il ritorno agli anni ’80: lo desiderano. Trump ha saputo demolire due figure emergenti del Partito Democratico, i governatori Pritzker (Illinois) e Newsom (California), mettendo in crisi una sinistra priva di leadership coesa e strategia.

Il risultato? Un Partito Democratico spaccato, in guerra fratricida, incapace di esprimere un’alternativa credibile. Trump sta così costruendo un’autostrada non solo per la sua rielezione, ma anche per il futuro del partito repubblicano. E nel frattempo estremizza, polarizza, capitalizza. A New York, un candidato della sinistra radicale ha battuto alle primarie democratiche un nome storico come Cuomo. È il segnale che le estreme dominano, da ambo i lati. In questo contesto, Trump continua a dettare l’agenda quotidiana dei media, imponendo linguaggio, temi e stile. Un linguaggio che – con buona pace dei suoi critici – parla ancora la lingua vincente dell’America anni ’80. E proprio per questo, potrebbe continuare a vincere.

Carlo Alberto Giusti

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