L'artificiale e il naturale
Trump propone il baratto ai Paesi del Golfo: “Chips for oil”. Obiettivo investimento nell’IA
Il mondo gira ancora, ma lo fa secondo logiche sempre più simili a quelle di un bazar geopolitico, dove le grandi potenze non commerciano solo merci, ma anche favori, minacce, concessioni. Benvenuti nel nuovo mondo multipolare, dove persino il prezzo del petrolio può essere trattato in cambio di accesso ai semiconduttori. “Chips for oil”: lo slogan che sintetizza una diplomazia muscolare, molto trumpiana, e decisamente poco multilaterale.
La tregua commerciale tra Stati Uniti e Cina ha riportato un po’ di ossigeno ai mercati energetici. Il Brent è risalito a 66 dollari al barile. Ma siamo ancora lontani dai livelli “di conforto” di inizio anno (70-80 dollari) e ancor più dalla soglia critica dei 91 dollari al barile che, secondo l’Fmi, servirebbe all’Arabia Saudita per pareggiare i conti pubblici. Riad non è sola: tutto il cartello Opec+, con la Russia al traino, guarda al prezzo del greggio come a un bilancio familiare da salvare. Eppure, paradossalmente, i Paesi produttori stanno facendo l’opposto di ciò che vorrebbe la logica del mercato: aumentano la produzione. Da aprile a giugno, Opec+ ha messo sul mercato quasi un milione di barili in più al giorno, ben oltre le previsioni. Le giustificazioni ufficiali parlano di sanzioni interne, quote non rispettate, pressioni per smascherare i “furbetti del petrolio”. Ma forse la spiegazione vera non sta dentro Opec, bensì alla Casa Bianca.
O meglio: nella Casa Bianca che potrebbe tornare. Donald Trump ha fatto del petrolio a basso costo una bandiera della sua politica estera e domestica. Durante il suo primo mandato, ha tempestato di tweet il principe Mohammed bin Salman per chiedere un aumento della produzione. Ora, in vista di un possibile ritorno, il suo entourage sta già riaprendo i canali. E qui entra in scena il vero scambio: produzione di petrolio contro chip. I Paesi del Golfo – Arabia Saudita, Emirati, Qatar – non vogliono solo vendere greggio. Vogliono anche partecipare alla corsa del secolo: l’intelligenza artificiale.
Ma l’America di Biden ha imposto restrizioni severe sull’export di semiconduttori strategici, ponendo i Paesi arabi in una “Serie B tecnologica”. Non come la Cina, ma nemmeno come l’Europa. E allora ecco l’accordo implicito: voi aumentate l’output e tenete bassi i prezzi del petrolio; noi vi facciamo salire sul treno dell’IA. È un baratto neocoloniale o un realismo cinico? Dipende da dove si guarda. Trump, in perfetto stile da deal maker, vuole abbandonare le regole uguali per tutti, per sostituirle con trattative bilaterali: un chip per un barile, una deroga per un voto all’Onu, un data center per un oleodotto. È la fine del libero scambio come lo abbiamo conosciuto? Probabile. È anche la fine dell’unipolarismo americano? Già avvenuta. Naturalmente, la partita dei chip non è affatto semplice.
I controlli sulle esportazioni si stanno dimostrando porosi. I mercati grigi proliferano, i triangoli commerciali si moltiplicano, e dove c’è un divieto c’è sempre un intermediario disposto a infrangerlo. Ma nel breve periodo, un alleggerimento delle restrizioni per i partner arabi potrebbe funzionare. Soprattutto se si inserisce nella logica trumpiana: l’importante non è la coerenza, ma l’impatto immediato. Sullo sfondo, la vera domanda è un’altra: cosa succede a un mondo in cui energia e tecnologia diventano strumenti di scambio geopolitico quotidiano? Dove ogni barile ha un prezzo politico, e ogni chip un valore strategico? Forse è la normalità del XXI secolo. O forse è solo l’ennesima bolla, pronta a scoppiare alla prossima crisi energetica o cibernetica. Intanto, nel bazar globale, il vecchio baratto torna di moda. Non più grano per ferro, come ai tempi dell’Urss. Ma petrolio per processori. Benvenuti nel futuro.
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