Un piano per la costruzione di un partenariato tra Italia e Africa improntato all’approccio cooperativo e paritario di matteiana memoria, divenuto legge lo scorso gennaio. Un piano che aiuta lo sviluppo sociale, economico ed energetico degli Stati del continente africano in ottica “non predatoria”, come più volte affermato dalla Presidente Meloni, da finanziarsi con tre miliardi di euro a valere sul Fondo per il Clima in aggiunta ai 2 miliardi e mezzo delle risorse già stanziate per la cooperazione allo sviluppo. L’obiettivo è quello di arginare i flussi migratori e facilitare all’Europa l’approvvigionamento di risorse energetiche, divenute ancor più scarse dopo l’inizio della guerra tra Russia e Ucraina, in linea con gli obiettivi di diversificazione del piano REPowerEU con cui la Commissione europea ha enunciato la necessità di riduzione della dipendenza dal gas russo mediante opportune politiche di diversificazione dell’offerta.

Gli ambiti di intervento sono vari. Istruzione e formazione, agricoltura, salute, acqua, infrastrutture ed energia. Per quanto concerne quest’ultima non è tuttavia chiaro quali siano le linee di intervento che il piano intende attuare. La formulazione adottata, “valorizzazione e sviluppo del partenariato energetico anche nell’ambito delle fonti rinnovabili”, appare piuttosto vaga. La sua interpretazione può essere aiutata dalle dichiarazioni rese negli ultimi mesi dai vertici di governo a commento del piano stesso: si è parlato di misure di rafforzamento dell’efficienza energetica, di impiego di energie rinnovabili finalizzato ad accelerare la transizione elettrica, di interconnessione elettrica Italia-Tunisia, di un corridoio per il trasporto dell’idrogeno dal Nord Africa all’Europa, e di sviluppo della filiera dei biocarburanti. Una serie di attività perfettamente in linea con la Tassonomia europea delle attività economiche eco-sostenibili, con il tanto decantato “transitioning away” dalle fonti fossili sancito durante la COP28, e, più in generale, con gli obiettivi ESG (Environmental, Social and Governance) su cui i mercati finanziari focalizzano, ormai da alcuni anni, un’attenzione crescente.

Il piano, che non contiene riferimenti all’energia fossile, deve però essere necessariamente contestualizzato nella strategia energetica del governo che – sin dal suo insediamento – ha rilanciato il mantra dell’Italia come hub europeo del gas, siglando un accordo di oltre otto miliardi di dollari con la NOC (National Oil Company) libica per lo sfruttamento di nuovi giacimenti offshore. Altro elemento “contestualizzante” viene dai recenti accordi di ENI, tra le 12 società partecipate che hanno preso parte al recente vertice Italia-Africa, con l’algerina Sonatrach volti (tra le altre cose) al rafforzamento della sicurezza di approvvigionamento energetico nazionale attraverso la realizzazione di un nuovo gasdotto, che consentirà di aumentare le forniture algerine di un terzo e l’incremento della capacità di liquefazione di gas naturale da destinare all’esportazione. Lo stesso aggiornamento del Piano Nazionale Integrato Energia Clima (PNIEC), presentato lo scorso luglio dal MASE alla Commissione europea, pur recando obiettivi più ambiziosi in termini di de-carbonizzazione, pone una nuova enfasi sul ruolo del gas naturale ai fini della sicurezza energetica e su quello – conseguente – della tecnologia di Carbon Capture and Storage (CCS) segnando un punto di discontinuità rispetto alla versione originaria del 2019.

Il fatto che il Piano Mattei possa celare la strategia di assicurarsi la prosecuzione di uno sviluppo economico fondato sulle fonti fossili inquinanti è valso del resto al governo una pioggia di critiche da parte delle organizzazioni ambientaliste, dei partiti all’opposizione, così come di alcuni esponenti dell’Unione Africana stessa, i quali hanno apertamente accusato l’Italia di voler “gasare” l’Africa. È però pur vero che, proprio al fine di consentire la transizione energetica e integrare una porzione crescente di fonti rinnovabili nel mix di generazione, in Italia – così come in Europa e nel resto del mondo – il gas naturale continuerà a essere un’indispensabile fonte di flessibilità e sicurezza per l’intero sistema. Le quantità e i tempi necessari sono al momento incerti e saranno dettati dal ritmo degli investimenti in fonti rinnovabili che, per essere finanziati, richiederanno l’afflusso di ingenti capitali privati – in un contesto in cui le dinamiche dei flussi di fondi sostenibili – lasciano però alquanto a desiderare: nell’ultimo trimestre del 2023, secondo Morgan Stanley, si è registrato un deflusso netto a livello globale (-2,5 miliardi di dollari) a fronte di una dinamica esponenzialmente decrescente già in atto dalla fine del 2021 che sta interessando anche il mercato europeo. Investimenti, ed è questo forse l’aspetto che troppo spesso (speriamo non nel Piano Mattei) sfugge, che non sono solo quelli in capacità di generazione rinnovabile ma anche quelli necessari al potenziamento delle reti elettriche e alla realizzazione di capacità di accumulo in grado di contrastare l’aleatorietà e l’intermittenza tipiche delle energie rinnovabili. Perché la transizione non è solo questione di produzione e approvvigionamento, ma si fa sulle reti nazionali garantendo l’equilibrio tra la domanda e un’offerta destinata a divenire sempre più volatile e frammentata.

Di certo si può ragionevolmente affermare che non è verosimile che nel 2025 le rinnovabili costituiscano la prima fonte di elettricità a livello globale, così come affermato dall’International Energy Agency, men che meno, il primo input energetico. Lo dimostra l’analisi della dinamica nazionale di penetrazione delle fonti non fossili sul totale dei consumi finali di energia: tra il 2017 e il 2022 il peso effettivo delle rinnovabili sui consumi energetici complessivi si è mantenuto al di sotto della traiettoria prevista dal PNIEC, attestandosi attorno al 20%. Lo stesso dicasi per le rinnovabili elettriche e termiche, mentre fa eccezione il settore dei trasporti in cui però il contributo di tali fonti resta marginale. Cercare di assicurarsi un accesso prioritario alle forniture di gas fossile attraverso una cooperazione strutturata con i paesi africani fornitori potrebbe perciò essere considerata un’iniziativa pragmatica piuttosto che anti-sostenibile e, magari, motivata dalla consapevolezza che la transizione energetica richiederà probabilmente tempi più lunghi di quelli preventivati, capitali più ingenti di quelli ipotizzati e – da ultimo, ma non per ordine di importanza – competenze e professionalità non comuni, sia sul fronte tecnico-economico che su quello regolatorio-organizzativo, volte a garantire la tenuta del sistema energetico e la minimizzazione degli oneri a carico dei consumatori finali.

 

Susanna Dorigoni - Università Bocconi

Autore