La guerra è protagonista della politica e non il contrario. Negli Usa tirano molti venti di ripensamento sia fra i democratici che i repubblicani. Lo stato delle cose sul campo di battaglia è noto: quando Shoigu renderà nota la zona del fronte su cui ha deciso di sfondare, e sfonderà. Questo dato di fatto è diventato una certezza politica ed è un elemento di crisi nella campagna elettorale americana. Donald Trump seguita a ripetere che con lui alla Casa Bianca la guerra in Ucraina si risolverebbe immediatamente.

La guerra è protagonista della politica e non il contrario. Negli Stati Uniti tirano molti venti di ripensamento sia fra i democratici che i repubblicani. Lo stato delle cose sul campo di battaglia è noto: quando Shoigu, il ministro della difesa di Putin, renderà nota la zona del fronte su cui ha deciso di sfondare, e sfonderà. Questo dato di fatto è diventato una certezza politica ed è un elemento di crisi nella campagna elettorale americana. Donald Trump seguita a ripetere che con lui alla Casa Bianca la guerra in Ucraina si risolverebbe immediatamente. La voce che gira di più è quella di una cessione della Crimea e del Donbass limitando molti danni altrove. Ma sono chiacchiere fra diplomatici e militari i quali poi conversano in condizioni di anonimato con le maggiori testate americane che fanno un titolo su cui non è ancora possibile giurare.

Ma qualcosa di veramente nuovo sembra esserci ed è la frattura all’interno del partito repubblicano tra gli stretti seguaci di Donald Trump e gli altri che provengono dall’antica corrente del grande party sì che soffrono moltissimo nel vedere l’America umiliata militarmente dalla Russia. Il punto di incontro fra questi repubblicani un po’ meno trumpiani degli altri e i democratici sta in un piano che ha rivelato la Washington Post. Lo speaker della House, cioè della camera bassa, è repubblicano ma non totalmente trumpiano e sembra che stia trattando la propria rielezione in quell’importantissimo posto di comando in cui si fanno i calendari dei lavori e si stabilisce la precedenza delle leggi da approvare. Sta lavorando su una legge bipartisan che potrebbe sbloccare il 60 miliardi di aiuti militari ed economici già stanziati dal Senato per l’Ucraina ma che i repubblicani hanno bloccato alla camera.

Per comprendere la posta in gioco e perché in questo momento le posizioni repubblicane sembrano meno rigide nell’idea di abbandonare l’Ucraina al suo triste destino. La ragione è insieme patriottica e geopolitica. E riguarda la Cina mentre guarda Taiwan. In breve: fin dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, Pechino è stata un irreprensibile alleato di Mosca, ma sempre solo a parole. Diversamente dall’Iran chi ha mandato milioni di droni alla Russia, la Cina si è limitata a incrementare gli scambi commerciali ed esprimere solidarietà negli incontri formali. Il presidente americano Joe Biden ha telefonato molte volte al Presidente cinese Xi Jinping e qualche mese fa lo volle incontrare a San Francisco per ricordare alla Cina che tutto il suo interesse commerciale è negli Stati Uniti e che sarebbe disastroso per la Cina, in un momento di grande difficoltà economica, prendere un atteggiamento ostile. La Cina non ha venduto armi alla Russia, ma ha fatto acquisti di petrolio pagandolo in tecnologia non bellica, come auto e camion pesanti. La Russia ha fatto comunque grandi affari con la Cina per effetto del blocco del Mar Rosso imposto dagli Houthi che agiscono agli ordini di Teheran. È di due giorni fa notizia che a causa del blocco, la Cina ha sospeso la navigazione dei portacontainers e ha spedito le sue merci dirette in Europa usando le ferrovie statali russe che nel primo trimestre hanno guadagnato il 44 per cento in più e si aspettano un ulteriore aumento del 30-40 per cento nel prossimo trimestre. La Cina è stata cauta ma non neutrale perché formalmente è stata al fianco della Russia ed ha però fatto qualche tentativo di mediazione. Ma fin dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina tutte le agenzie di intelligence avevano dato notizia di una convulsa attività di spionaggio elettronico raccolta dati da parte della Cina perché ha considerato l’esito della guerra russo-ucraina, un test con cui valutare i se conviene o no fare una guerra per Taiwan.

Pechino vuole vedere se gli Stati Uniti sono in grado di condurre una guerra di lunga durata dal punto di vista economico e politico. Ciò che accade oggi sul campo ucraino indica che gli Stati Uniti sono diventati inaffidabili per i loro alleati, e questo è un punto di forza per Xi Jinping che sogna di completare la sua opera imperiale conquistando Taiwan che tra l’altro non è cinese da più di due secoli essendo stata prima portoghese, poi giapponese e quindi indipendente. Ma per Xi si tratta di una vera questione di immagine di fronte al partito in cui serpeggia una crescente opposizione al suo regno. “L’America non mantiene la sua parola” è stato in questi giorni e in varie forme un titolo che si è visto sui giornali nei blog, siti e nei rally.

Gli Stati Uniti dissero per bocca del loro Presidente Biden, che avrebbero sostenuto l’Ucraina con denaro e armi “as long as it takes”, tanto quanto basta, fino alla fine. E invece il sistema democratico americano ha permesso che una lieve maggioranza repubblicana bloccasse ben 60 miliardi di dollari già destinati con approvazione del Senato a portare soccorso all’Ucraina morente.

Il 17 febbraio la città ucraina di Avdiivka è caduta in mano ai russi e a Kyiv è cresciuta molto la tensione. La decisione di Zelensky di abbassare da 27 a 25 anni l’età del servizio militare per disporre di nuovi soldati ha amareggiato un Paese che con entusiasmo ha già scarificato la sua gioventù con la speranza di vincere. Ma adesso come si può sperare di resistere? Mancano i missili americani Patriot per la contraerea, e mancano i proiettili d’artiglieria da 155 millimetri.

I russi possono sparare il quintuplo degli ucraini, e gli ucraini cadono uno dopo l’altro. Il Presidente ucraino Zelensky lo ha ammesso con viso di pietra rigato dalle lacrime: “Sta ai russi decidere dove sfondare. E là sfionderanno”. I reportage di guerra negli Stati Uniti sono molto densi di dettagli e interviste ed è chiaro da tutte le voci raccolte e pubblicate che tutti gli ucraini si dicono profondamente delusi dal voltafaccia americano. I repubblicani trumpiani ne approfittano per deridere l’Unione Europea: “Avete visto? Non fanno nulla: soltanto parole, pensano ai fatti loro perché senza l’America l’Europa è un lattante in mezzo ai lupi”. La montata di disprezzo dei conservatori americani ha però riacceso la brace della guerra fredda.

Il popolare Washington Post che ha inviati permanenti sul campo, così come il New York Times, il Wall Street Journal e le maggiori testate, accende gli animi. Chi ricorda l’Unione Sovietica vive questo momento come un disonore: l’America non può abbandonare gli alleati cui ha promesso rifornimenti “fin quando ce ne sarà bisogno”. In questo momento di tensione etica e politica si inserisce il piano di Mike Johnson, lo Speaker della House, con molti più poteri di un nostro Presidente della Camera che decide il calendario dei lavori del Congresso. È trumpiano, ma si sta creando il suo spazio cominciando dalla proposta di far passare la legge già votata dal Senato con i 60 miliardi per l’Ucraina, e in più altri provvedimenti e finanziamenti, specialmente per la difesa di Taiwan, creando un asse bipartisan.

Anche Trump non respinge l’idea perché è sempre stato un suo punto fermo quello di contenere l’espansione militare cinese. La decisione spetta alla Russia, che può scegliere dove lanciare l’attacco e Zelensky sa, ma ieri il ministro degli Esteri russo Lavrov è improvvisamente volato a Pechino, che quando Putin sceglierà il momento dell’attacco finale, l’Ucraina non cadrà come un castello di carte perché è, e sarà abbastanza forte, per difendersi arretrando metro dopo metro, soldato dopo soldato fino alla fine come alle Termopili. Ci vorrà un tempo medio-lungo e in quel tempo si attenderanno i risultati del piano di Mike Johnson per chiudere la trattativa con i democratici e far arrivare in tempo l’ossigeno all’Ucraina in ginocchio.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.