Gergely Karácsony è sindaco di Budapest da circa un mese. Grazie alla sua vittoria, il dominio incontrastato di Viktor Orbán, primo ministro dell’Ungheria, ha subito uno stop. Oggi la capitale è la spina nel fianco di quello che resta – dopo l’autodemolizione agostana di Matteo Salvini – il massimo leader del populismo europeo. Ma come ha scritto Umut Korkut, professore alla Caledonian University di Glasgow, «in seguito alla vittoria di Karácsony gli oppositori interni di Orbán cominciano a rendersi conto che il cambiamento può iniziare a livello locale per plasmare poi la politica nazionale». Non era facile “liberare” Budapest da nove anni di controllo di Fidesz, il partito del premier. Serviva il sostegno comune di tutti i partiti di opposizione. Era stata proprio l’incapacità di dialogo nelle elezioni generali dell’aprile 2018 a consentire la vittoria di Orbán. E Fidesz cominciava a sembrare invincibile. Diversamente dal recente passato, pertanto, i candidati indipendenti e i principali partiti di opposizione si sono uniti a sostegno di un unico candidato nella maggior parte delle città. «Questa collaborazione ha creato l’occasione per sfidare sul serio Fidesz», ha dichiarato Andras Biro-Nagy, direttore di Policy Solutions, un think tank di Budapest. Così, nonostante il dominio quasi completo del partito governativo sui media e sullo stato, i candidati dell’opposizione hanno ottenuto il controllo in 11 delle 23 città più grandi dell’Ungheria, tra cui la capitale, Budapest. E adesso? Come spiega Tim Gosling di Foreign Policy, «Budapest ha un peso enorme sul piano finanziario, simbolico e in termini di esercizio nudo e crudo del potere politico. L’area metropolitana ospita circa un terzo della popolazione ungherese e rappresenta oltre il 40 per cento dell’economia nazionale. Karácsony e gli altri sindaci eletti controlleranno ingenti risorse, tra cui alcuni dei miliardi di dollari in finanziamenti dell’Unione europea che provengono da Bruxelles per favorire lo sviluppo economico e sociale. In questo modo la distribuzione di posti di lavoro presso le società di proprietà pubblica locale ricadrà sotto il loro controllo». A ciò si aggiunga la visibilità mediatica che darà al neosindaco della capitale l’opportunità di intervenire sull’agenda politica del Paese. Per esempio, Karácsony ha già affermato che la sua vittoria riporta la capitale ungherese nel 21° secolo e che il suo obiettivo è quello di riportare Budapest – e l’Ungheria – in Europa. Tradotto, ciò vuol dire che l’unica modernizzazione possibile per il Paese passa da un rapporto sano con l’Europa e non certamente da un atteggiamento di chiusura nazionalista.

In pratica, nella ormai decennale sfida che, in Europa orientale, vede contrapposti gli europeisti ai sovranisti, per la prima volta sembra che i primi riprendano fiato. Davvero una buona notizia. L’altra notizia positiva è che il sindaco di Budapest non è da solo in questa sfida. In Slovacchia, il sindaco di Bratislava Matus Vallo, al potere dal novembre 2018, è espressione di una coalizione di indipendenti che sta sfidando il partito di governo Smer – Direzione Socialdemocrazia (Smer – sociálna demokracia). Quest’ultimo, almeno nominalmente di centrosinistra, pur dominando la politica slovacca da oltre un decennio, non aveva conquistato nessuna delle otto capitali regionali del paese. L’opposizione liberale si è poi rafforzata con la vittoria alle elezioni presidenziali di marzo di Zuzana Caputova, fondatrice di Slovacchia Progressista (Progresívne Slovensko), partito social-liberale e progressista nato nel 2017. Queste due vittorie danno slancio all’opposizione liberale in vista delle elezioni politiche del febbraio 2020. Qualcosa del genere succede in Polonia. A livello nazionale domina Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość, abbreviato in Pis), il partito di destra di ispirazione conservatrice e clericale. Il leader del Pis Jaroslaw Kaczynski ha sfruttato la debole leadership dell’opposizione a livello nazionale e ha utilizzato i fondi statali a sostegno delle aree rurali. Ma gli abitanti delle città rimangono immuni dalle lusinghe dei sovranisti. Il Pis non soltanto resta fuori dal municipio di Varsavia da 13 anni, ma nemmeno controlla le dieci più grandi città della Polonia. «Le grandi città hanno permesso all’opposizione di rimanere politicamente rilevante», ha affermato Ryszard Luczyn di Polityka Insight, un’organizzazione di analisi politica con sede in Polonia. Colmare il gap esistente tra le città e le aree rurali diventa così la grande sfida degli europeisti. Lo ha spiegato bene

Rafał Trzaskowski, l’attuale sindaco di Varsavia, prima delle elezioni: «Sappiamo come convincere le persone nelle grandi città. Il nostro problema è come convincere le persone nelle aree rurali del sud e dell’est, dove l’impatto della propaganda del governo è così forte». Nella Repubblica Ceca, infine, il sindaco di Praga Zdenek Hrib è impegnato a contrastare la politica filo-russa del presidente Milos Zeman. Il primo ministro ceco Andrej Babis, alleato politico di Zeman, ha tollerato la spinta del presidente a rafforzare i legami con Russia e Cina, anche contro gli avvertimenti dei servizi di sicurezza. Ma i leader della città sono determinati a contestare queste relazioni pericolose. Insomma. Se l’ascesa di governi populisti nei paesi del Gruppo di Visegrad rappresenta una sorta di “tumore” sovranista nel cuore dell’Unione europea, le loro capitali – Praga, Budapest, Varsavia e Bratislava – potrebbero diventare il punto di partenza per la riscossa dell’europeismo a Est. Certo, la collocazione politica dei quattro sindaci è molto diversa: Trzaskowski (Varsavia) è un ex ministro della Piattaforma civica di centro destra, Vallo (Bratislava) guida un governo di tecnocrati indipendenti, Karácsony (Budapest) ha una storia da ambientalista, Hrib (Praga) è un medico attivista del partito pirata. Ma bisogna prenderne atto: il conflitto tra riformisti e populisti in Europa si sviluppa su coordinate politiche nuove e sulle comuni personalità dei leader. «Sono tutte persone giovani, istruite e di mentalità aperta che sanno conquistare gli elettori liberali delle città», spiega Jakub Groszkowski del Center for Eastern Studies, un think tank con sede a Varsavia. La loro vera sfida dei prossimi mesi, pertanto, sarà quella di convincere pure gli elettori delle aree rurali. Lì i governi populisti sono ancora fortemente radicati.

Vittorio Ferla

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