Economia
185 miliardi di euro evaporati in un giorno dalle capitalizzazioni europee: l’economia paga il prezzo delle guerre
La guerra è tornata a dettare le regole del mercato. Non con l’arroganza di una dichiarazione ufficiale, ma con l’eleganza brutale di una variazione di prezzo. Un attacco nella notte, missili su siti nucleari iraniani, lo spazio aereo chiuso da Israele. Eppure, ciò che esplode non è solo l’infrastruttura militare: è la narrativa stessa di un’economia mondiale che pretende di essere razionale mentre naviga a vista nel caos. E la finanza reagisce, come sempre. Ma cosa significa “reagire”? In un solo giorno, 185 miliardi di euro sono evaporati dalle capitalizzazioni europee. “Non è la catastrofe”, si affretteranno a dire i tecnici. È “volatilità”. È “correzione fisiologica”. Il lessico degli anestetizzati. La verità è che la Borsa non cade, ma sussulta: ha imparato a convivere con l’assurdo, a incorporare la guerra nei modelli predittivi, a considerare l’instabilità un dato, non una variabile. E così il Brent vola, il gas europeo schizza, il dollaro si irrobustisce come un corpo sotto steroidi geopolitici, e l’oro – quel vecchio relitto di epoche premoderne – torna a splendere come unico totem.
Il paradosso
È il paradosso eterno dell’Occidente: esaltare l’autonomia e vivere di dipendenze. Abbiamo tagliato il cordone con la Russia, ma ci siamo subito aggrappati a nuove ombre: Qatar, Arabia Saudita, Egitto, Emirati. E adesso Iran. Non è transizione energetica, è trasferimento della fragilità. Abbiamo solo cambiato padrone. Nel caso italiano, un terzo delle forniture di gas e petrolio passa oggi attraverso il campo minato geopolitico del Medio Oriente. E nel momento in cui i missili tracciano parabole tra Israele e Teheran, i costi energetici si impennano con la prevedibilità di un orologio svizzero, ma la pericolosità di una bomba a orologeria. L’inflazione è la conseguenza immediata. Ma il dolore vero arriva con i costi di produzione, con la logistica inchiodata, con i noli marittimi risaliti per paura, e con le compagnie assicurative che fiutano il sangue e alzano i premi.
La Russia si lecca le ferite in silenzio
L’illusione è che l’economia sia neutra, che basti scomporla in dati, tassi e algoritmi. Ma i mercati, per quanto cinici, sanno riconoscere l’ipocrisia: reagiscono alle guerre come ai bollettini della Fed, e ciò dovrebbe inquietarci più di quanto ci rassicuri. Mentre l’Europa contabilizza perdite e gli analisti si affannano a rassicurare con termini come “resilienza” ed “elasticità del sistema”, qualcuno festeggia. La Russia si lecca le ferite in silenzio, ma intanto gode: prezzi in ascesa, sanzioni meno aggressive, export che torna conveniente. Gli Stati Uniti, paladini di un ordine che si sgretola sotto il loro stesso peso, riscoprono la redditività dello shale oil. A 75 dollari a barile, anche il petrolio texano torna un affare. È questa la beffa suprema: il disordine mondiale alimenta esattamente ciò che l’Occidente dice di voler contenere.
Il futuro è un rischio
Non ci sono crolli epocali, non ancora. Ma questo non è un segno di stabilità: è il sintomo di un sistema malato di assuefazione. La finanza non si ribella alla guerra: la incorpora. La crescita non si ferma di colpo: svanisce lentamente, tra margini erosi, investimenti posticipati e decisioni congelate. Il futuro non è più una promessa: è un rischio da assicurare. E domani? Un’altra crisi, un altro shock, un altro picco. La vera tragedia dell’economia contemporanea non è l’instabilità, ma la sua normalizzazione. Ogni nuova esplosione, ogni scontro, ogni escalation viene metabolizzata in tempo reale, masticata dai mercati e restituita in forma di percentuali. E intanto il sistema produttivo – quello vero, fatto di fabbriche, trasporti, salari e debiti – affonda piano, senza che nessuno abbia il coraggio di gridare che il re è nudo. È come se la guerra fosse tornata prassi, il mercato una roulette e la crescita un’illusione venduta a chi ha ancora fiducia nei comunicati delle banche centrali. È l’economia della sopravvivenza programmata: non cresce, crolla. Pensa di star galleggiando. E intanto affonda.
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