Il periodico report sullo stato del nostro Paese, pubblicato il 17 novembre da Moody’s, era atteso in Italia con una particolare ansia. Un eventuale e non escludibile a priori downgrading ci avrebbe fatto slittare nella fascia dei Paesi spazzatura, con le inevitabili conseguenze economiche, politiche e sociali che sono facilmente immaginabili. Invece Moody’s non solo ha confermato il rating Baa3, ultimo gradino prima della caduta all’inferno, nell’area “speculative grade”, ma nella sorpresa generale ha rivisto l’outlook italiano da “negativo” a “stabile”. Sia chiaro, da italiano mi fa solo piacere, faccio il tifo per il mio Paese, qualsiasi sia il Governo al potere, ma mi chiedo però come ciò sia possibile. Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale, OCSE, Banca d’Italia, Centro Studi Confindustria sono unanimemente d’accordo su un fatto: nel 2023 il PIL italiano è in forte rallentamento e peggio ancora sarà nel 2024, che vedrà l’Italia fanalino di coda per crescita fra i Paesi europei. Non meglio andrà sul fronte del debito pubblico, che dopo una modesta riduzione a fine 2023 è destinato a risalire nel 2024. E poi aumento del costo del credito per famiglie ed imprese, la cui fiducia continua a scendere, investimenti bloccati, consumi in calo, export in affanno.

Il giudizio sull’Italia

A tutto ciò si aggiunge il non certo lusinghiero giudizio pubblicato dalla Commissione Europea sulla manovra economica ipotizzata dal Governo per il 2024, che viene definita “non pienamente in linea con le raccomandazioni della stessa Commissione”. Siamo rimandati a primavera, con l’invito pressante di essere pronti ad introdurre le modifiche richieste e necessarie ed il rischio neanche troppo nascosto di incorrere in una procedura di infrazione per squilibri macroeconomici eccessivi. Vista la situazione e considerato che l’outlook misura le prospettive per il futuro, sono davvero perplesso davanti all’ottimismo di Moody’s, perplessità che aumenta alla lettura delle motivazioni che hanno portato a definire come “stabile” e non più “negativo” il nostro outlook.

Secondo Moody’s fra i nostri punti di forza ci sarebbero la diminuzione dei rischi legati alle forniture energetiche, i miglioramenti del settore bancario e l’attuazione del PNRR. Vada per il primo punto, dove non smetterò mai di ringraziare il Presidente Draghi per la sua fruttuosa politica di diversificazione dei fornitori di energia, ma onestamente quante difficoltà stiamo vivendo con l’attuazione del PNRR, stretti fra rate pagate con mesi di ritardo per il non raggiungimento degli obiettivi previsti e la costante ed intensa rimodulazione del Piano stesso? E che dire poi dei miglioramenti del settore bancario? Moody’s si riferisce forse al fatto che si prevede un clamoroso innalzamento degli utili 2023 delle banche, che secondo stime recenti passerebbero a 43 miliardi rispetto ai 25 dell’anno scorso, con una crescita del 70 per cento. Forse Moody’s non prende in considerazione che le migliori performances degli istituti bancari sono legate all’accentuata crescita degli interessi, che hanno garantito alle banche tassi attivi alle stelle mentre i tassi passivi restavano poco sopra allo zero. Forse Moody’s dimentica che i super profitti delle banche sono dovuti ad un’operazione che, pur contribuendo alla riduzione del tasso di inflazione, ha dato comunque un’ulteriore spallata alla già traballante economia italiana, tagliando investimenti e consumi.

Gli insegnamenti della Lehman Brothers

Credo sia giunto il momento di porre seriamente al centro dell’attenzione il tema dell’affidabilità dei giudizi delle società di rating. La vicenda Lehman Brothers è ancora ben presente nella memoria di molti: nel 2008 una delle maggiori società finanziarie a livello globale, appunto Lehman Brothers, porta i libri in tribunale, lasciando per strada da un giorno all’altro oltre 25.000 dipendenti. Con un dettaglio non irrilevante: i titoli della società avevano mantenuto il rating di tripla A, sinonimo di massima affidabilità. È allora giusto e corretto che le società di rating, dimostratesi come in questo caso inaffidabili e superficiali, possano a tavolino decidere il destino non solo di un titolo ma addirittura di un Paese? È giusto e corretto che fra gli azionisti di tali società – che ricordo, sono private – compaiano gestori di fondi, managers di grandi società o rappresentanti di giganti della gestione del risparmio? È giusto e corretto che anche la Banca Centrale Europea si affidi ai rating per decidere quali titoli del debito pubblico di Paesi europei acquistare o meno? Le decisioni delle società di rating possono non solo influenzare pesantemente il valore di un titolo, spingendo gli investitori a venderlo/comprarlo, ma addirittura condizionare il futuro di un Paese.

Un’agenzia di rating europea

Per concludere, dobbiamo o possiamo avere fiducia in Moody’s, Standard and Poor’s o Fitch o dobbiamo dare retta a chi, come il Commissario Europeo agli Affari Economici Olli Rehn nel 2008 le definì “strumenti del sistema capitalistico americano”? O a Mario Draghi, che nel 2012 sostenne che “dobbiamo imparare a vivere senza le agenzie di rating”? Non è semplice dare una risposta, come spesso accade probabilmente la verità sta nel mezzo, ma di una cosa sono certo: è giunto il momento di pensare concretamente ad un’agenzia di rating europea, che si occupi almeno di classificare i debiti sovrani. Un’agenzia indipendente, pubblica e trasparente, che spezzi un monopolio ormai consolidato a livello mondiale, che non sia pagata dai soggetti che deve giudicare, che non faccia riferimento a gestori di fondi e patrimoni o peggio ancora speculatori, ma soprattutto che non abbia il potere di decidere autonomamente il destino di un Paese.