L’elezione di Matteo Lorito a rettore dell’università Federico II offre il destro a una riflessione sul rapporto tra università e imprese, sulla esigenza di agevolare l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro dando nuova linfa alle imprese campane e meridionali che vogliono stare al passo della competizione sui mercati. Io credo che siano due le istanze da sottoporre alla sua attenzione.

La prima. È noto che la presenza di una università contribuisce allo sviluppo sociale, economico e culturale di un territorio. Tanto più se l’ateneo è efficiente, perché stimola lo sviluppo di nuove idee e opportunità. Che le università contribuiscano allo sviluppo sociale, economico e culturale delle regioni in cui operano, è oggi un assunto condiviso dalla comunità scientifica e dall’opinione pubblica. Credo che il nuovo rettore debba tenere nella giusta considerazione la sua università come sviluppatore urbano, un attrattore della classe dei creativi, vale a dire la classe di coloro che sono gli interpreti trasversali dell’innovazione: nelle università, centri di ricerca, cluster scientifici, imprese ad alto contenuto tecnologico, start-up. Parliamo, è ovvio, anzitutto del segmento dei cosiddetti “opifici post-industriali”, intesi come laboratori attivi della conoscenza che creano innovazione culturale, organizzativa, sociale, mobilità e crescita di capitale umano.

Parliamo delle “fabbriche dei nuovi saperi”, ossia insediamenti che concorrono a riqualificare parti di aree urbane o interi quartieri sottraendoli al degrado. Luoghi che fungono anche da “incubatori di classe dirigente”, vale a dire realtà che generano risorse umane pronte a portare nelle istituzioni la logica industriale: razionalità progettuale e organizzativa.

Volendo quindi proporre alcuni post-it come memo per il nuovo rettore, partirei dalla necessità di considerare ancor più l’effetto della presenza delle università non confinato all’interno dell’accademia, da esercitare sull’economia del territorio in cui opera influendo, non dimeno, sulla qualità del suo profilo socio-culturale. Un esempio palpabile di tale percorso, da replicare, resta sempre quello del polo di San Giovanni a Teduccio: emblema della capacità di reinterpretare le caratteristiche di un quartiere rilanciando il ruolo degli opifici di un tempo come aggregatori della fabbrica post-moderna.

L’attività della ricerca scientifica è un volano di innovazione nelle stesse aziende, elemento che fa lievitare l’economia locale. Quanto al tema del rapporto tra università e percorsi di studio, che si vogliono sempre più performanti e professionalizzanti, bisogna considerare che il progressivo accorciamento del ciclo di vita di tecnologie e conoscenza rende presto obsolete competenze così costruite. Sia chiaro, la richiesta di migliorare e potenziare il contenuto professionalizzante dei percorsi formativi a tutti i livelli è legittima, ma va pur tenuto nella giusta considerazione che il progressivo accorciamento del ciclo di vita delle tecnologie e della conoscenza, spinge verso l’alto il tasso di obsolescenza delle competenze. Non è paradossale sostenere, infatti, che non sappiamo oggi di quali competenze avremo bisogno nel prossimo futuro. E lo sapremo sempre meno.

Infatti, come qualcuno sostiene, scuola e università di oggi devono attrezzarsi a «preparare gli studenti per lavori che ancora non sono stati creati, tecnologie che ancora non sono state inventate e problemi ancora sconosciuti». Puntare su percorsi formativi fortemente professionalizzanti espone al rischio di generare capitale umano che potrebbe risultare “obsoleto” nel giro di poco tempo. Esso perché occorre puntare molto sulla adattabilità dei giovani (lavoratori del futuro) al cambiamento. Il sistema delle imprese ha la sua responsabilità e deve fare la sua parte. Vale a dire non pretendere di poter contare su lavoratori competenti senza dover sostenere costi aggiuntivi di formazione. E puntare a competenze adattabili nel tempo non significa rinunziare a potenziare quelle professionalizzanti.

Forse va preso in maggiore considerazione il modello fondato su un mix di competenze generali e specifiche da cui partire per garantire, attraverso la formazione continua, l’occupabilità dei giovani. Solo attraverso tirocini e formazione in entrata e continua, le imprese possono declinare le competenze generali in competenze utili alle loro esigenze. All’università resta quindi il compito di fornire non figure professionali rigide, bensì plastiche. Laureati capaci di acquisire nuove competenze anche al di là di quelle ottenute nel ciclo universitario e quindi in possesso di strumenti concettuali in grado di renderli criticamente e intellettivamente autonomi.