Un grande dibattito infiamma il Partito democratico e i suoi dintorni: gli occhi sorridenti di Enrico Berlinguer sulla tessera del 2024 presentata in questi giorni da Elly Schlein – un tempo il tesseramento cominciava nell’autunno dell’anno precedente, ma è un dettaglio – hanno scatenato obiezioni democristiane e rigurgiti identitari, mentre il tribunale dei social si lamenta indignato di appropriazione indebita. Già: che c’entra Berlinguer con il Pd e con le sinistre di oggi? Ma prima bisognerebbe chiedersi chi fosse Berlinguer. Il destino postumo del più amato e del più vittorioso fra i leader del movimento operaio italiano ci fornisce una traccia preziosa per capire come mai la sinistra di oggi sia diventata la caricatura della sinistra. Berlinguer, dopo la prematura scomparsa quarant’anni fa, è stato dapprima l’icona di Rifondazione comunista e poi del Movimento 5 stelle, che lo hanno elevato a simbolo dell’intransigenza, della “diversità” e, naturalmente, della “questione morale”; oggi il Pd sembra volerlo riproporre una terza volta nella stessa luce: movimentista e irriducibile.

Mi viene da sorridere, perché io mi sono iscritto al Pci nel 1977, all’apogeo della carriera politica di Berlinguer, perché il Pci mi sembrava il partito più moderato. Berlinguer era prima di tutto un illuminista – “Aveva una immensa ammirazione per la costruzione intellettuale di Kant”, ha ricordato il fratello Giovanni –, dunque profondamente fiducioso nella ragione e, vorrei aggiungere, nella ragionevolezza degli esseri umani; l’iperpoliticismo di Togliatti, alla cui scuola si era formato e di cui sarà maestro, era temperato da una rilettura feconda di Gramsci e della lezione dell’Ordine Nuovo: studiare la situazione concreta e le condizioni reali di vita delle persone in carne e ossa, anziché dedurle da un’ideologia astratta. Anche la famigerata “questione morale” – famigerata perché raramente un concetto è stato così malamente frainteso – va compresa alla luce di Gramsci e della sua “riforma intellettuale e morale”: è un programma politico, non una predica; un progetto di rinnovamento dello Stato, non un codice penale.

È proprio il rapporto con la realtà che è venuto meno alla sinistra italiana, riprecipitandola ai tempi di Bordiga, quando una muraglia separava i rivoluzionari dal resto del mondo, e la rivoluzione, come il Messia, sarebbe arrivata per un’ineluttabile legge della storia: bastava aspettare. Bordiga, ancora negli anni Cinquanta, quando collaborava ad una rivistina ignota ai più, era giudicato da Togliatti il più pericoloso di tutti: persino più di Mussolini e di Stalin, che pure avevano provato ad ammazzarlo. Oggi siamo di nuovo qui. “Devi farti venire un’idea controcorrente su come uscirne”, chiede il mio vecchio capo staff che ora dirige il Riformista. Personalmente preferirei scrivere su un giornale che si chiamasse Il Conservatore: perché il nostro compito oggi è conservare quel poco che è rimasto, e tramandare alle nuove generazioni il ricordo di ciò che è stato cancellato. Si parva licet, direi che siamo in una sorta di Medioevo, quando nessuno più sapeva leggere né scrivere, e i monaci, isolati nei loro monasteri, ricopiavano Aristotele immaginando che un giorno qualcuno avrebbe ricominciato a studiarlo.

Una parte di me, che si ribella all’abitudine propria delle persone di una certa età di giudicare sempre sbagliato un mondo che non riescono più a comprendere, pensa che la storia vada sempre e comunque avanti, che le situazioni cambino di continuo, e che ogni generazione abbia il diritto di sbagliare da sé (la mia di errori ne ha fatti decisamente troppi). A volte invece mi convinco che sia il Pd il vero ostacolo, il cadavere politico che ostruisce la prospettiva stessa di una sinistra riformista in Italia: e allora invoco la tabula rasa, illudendomi che la disintegrazione del Pd possa aprire uno spazio, un cammino. Ma è anche, e soprattutto, vero il contrario: i regimi, nei paesi come nei partiti, cadono soltanto se qualcuno ha la capacità di sfidarli e di abbatterli, perché altrimenti è sempre l’inerzia a prevalere. Quanto alla dissoluzione del Pd, potrebbe persino essere imminente, perché Giuseppe Conte, condannandolo a sconfitta certa nella gran parte delle elezioni locali, sa bene che in questo modo disintegra il ceto politico che, ormai, ne è l’unica componente e ragion d’essere. Conte affama la bestia: è molto bravo, in questo, e non sembra trovare reazioni. Ma non credo che da questo crepuscolo ci si possa attendere un’alba riformista.

Altre volte penso che, proprio perché le situazioni cambiano, forse sarebbe ora di concludere che la sinistra ha fatto il suo tempo: due secoli non sono pochi per un movimento politico, tanto più se riflettiamo su come in questi due secoli siamo stati capaci di passare dalla lampada a olio all’intelligenza artificiale. Le linee di frattura non corrono più fra capitale e lavoro, e neppure fra le classi, ma, lo sappiamo bene, fra “mondialisti” e “sovranisti” – o, secondo una terminologia antica, fra centristi ed estremisti, non importa se di destra o di sinistra. È così nei due ambiti fondamentali della politica: in quella estera, dove si deve scegliere fra Stati Uniti d’Europa e primato nazionale, fra l’Ucraina e Putin, fra Israele e Hamas; e in quella economica, dove il libero scambio delle merci e delle idee è minacciato dalla progressiva, diresti inarrestabile chiusura dei confini. La guerra si avvicina perché prevale la chiusura, che è a sua volta la causa strutturale del conflitto. “Io sono conservatore e amo la stabilità che illude di essere immortali – scriveva Giovanni Comisso, che a vent’anni aveva preso parte a Fiume all’unica rivoluzione che sia mai stata tentata in Italia –. Ogni abitudine conservata allontana dal senso di morire e di mutarsi in cenere. Già troppo sappiamo di essere fragili e mutabili nella ruota del tempo che il non trovare più lo stesso posto della stessa strada è come se fosse morto qualcuno della nostra casa o fossimo stati esiliati dalla nostra città natale”.

Fabrizio Rondolino

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