Caro Direttore,

ho letto con interesse l’intervista rilasciata da Luciano Violante al Riformista sul tema dei rapporti fra politica e giustizia. Un interesse che certo non meraviglia, e non solo perché l’ex presidente della Camera ha rivisto già da anni le sue posizioni sull’argomento, facendo autocritica di fatti compiuti e parole pronunciate trent’anni orsono, quando un golpe mediatico-giudiziario spazzò via i grandi partiti della prima Repubblica e condannò Bettino Craxi a morire in esilio.

Non c’è da stupirsi neppure se si conoscono un minimo le vicende di casa comunista, visto che la costante politico-culturale è quella di riconoscere gli errori e le omissioni con ampio ritardo sulla tabella di marcia della Storia. No, non sono sorpresa perché davvero sapevamo già tutto, perché le dinamiche che si erano innestate in quel biennio infame non potevano che portare ad una politica debole, subalterna e ripiegata su se stessa. Sapevamo, infatti, che quella stagione infame che va sotto il nome di “Tangentopoli” era mossa dal desiderio di svilire la funzione della politica, di liquidarne il primato e l’autonomia, di sottometterla ai potentati economici e finanziari, utilizzando la clava giudiziaria come arma impropria per piegare coloro che non erano funzionali al “disegno”.
Violante racconta che da trent’anni la politica “si è sdraiata sul lettino del giurista”.

Ha ragione. Non possiamo infatti ricordare oggi, con lo stesso sdegno di allora, l’opera sistematica tesa a scardinare tutte le più elementari norme di civiltà giuridica, gli abusi della carcerazione preventiva, gli arresti e gli interrogatori che servivano per estorcere confessioni, la perdita dell’onore di uomini che sacrificarono la loro stessa vita per sottrarsi ad una campagna vigliacca che pretendeva di bollarli con il marchio dei criminali.

Va da sé che il partito nel quale l’onorevole Violante militava non mosse un dito per frapporsi all’azione politica della magistratura, ma anzi la cavalcò perché riteneva fosse il solo modo per arrivare al potere. Seguirono in scia l’abolizione dell’immunità parlamentare, ovvero quell’istituto che i Padri costituenti avevano previsto come garanzia del principio di separazione dei poteri, e l’opera di demolizione – in realtà iniziata già un decennio prima – della figura di Bettino Craxi, il cui tentativo estremo di salvare la dignità del Parlamento e di fornire una soluzione politica alla crisi di legittimità dei partiti fu fatto passare per una chiamata in correità.

La storia è questa. E la ragione postuma, purtroppo, non cancella i torti, le ingiustizie e i dolori, non ripara le storture, anche e soprattutto democratiche, inferte al Paese. Ma a Luciano Violante riconosco il merito della serietà di analisi e la volontà di dire una parola di verità. Peccato, però, che a sinistra la sua sia tuttora una voce nel deserto, che il fascino delle Procure sopravviva al tempo e alla consapevolezza dei guasti enormi che ha procurato l’uso politico della giustizia. E peccato che il nome di Bettino Craxi, da quella parte, resti impronunciabile, rinchiuso nel recinto di una damnatio memoriae da cui non vogliono, non possono, farlo uscire.

Stefania Craxi

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