In un paese in cui il codice penale non riesce a impedire scandali e mascalzonate, è davvero buffa l’idea di rispolverare il vecchio arnese del codice etico per porre rimedio ai guasti di una classe politica, a tratti, palesemente inadeguata. L’armamentario dei codici etici appartiene a un tempo passato quando ancora si riteneva che precetti morali e collegi di probiviri potessero arginare la tendenza di taluno a occuparsi di affari o imbrogli vari. Poi è impattata sul problema la stessa magistratura, con lo scandalo Palamara, e l’esperienza dei probiviri dell’Anm ha suscitato perplessità e incertezze non essendo apparso uno strumento del tutto convincente. Se le stesse toghe hanno avuto difficoltà a destreggiarsi con condotte penalmente irrilevanti e asseritamente in contrasto con l’etica associativa, c’è da immaginarsi cosa accada o possa accadere altrove. È intuitivo che la questione sia molto più complessa e si avvertono in filigrana gli scricchiolii di una visione del mondo, di una cosmologia e di un’antropologia insieme, che non tengono il passo di una modernità dissolvente.

L’ultimo tentativo

La diluizione dell’etica repubblicana, l’attenuazione dei vincoli consociativi, l’affievolimento dei legami entro le formazioni sociali (partiti e sindacati, tra i primi) hanno comportato il progressivo svilimento di uno strumento – il codice etico, appunto – nato sulle ceneri di Tangentopoli, e tenuto in vita per qualche anno, che si voleva proporre come un rimedio autogestito in grado di mitigare comportamenti disdicevoli e conflitti d’interesse di aderenti e adepti. Insomma, l’idea era anche di un certo pregio: si eviti che sia sempre la magistratura a intervenire e, piuttosto, si controlli dall’interno quel che accade imponendo comportamenti “eticamente” corretti e comminando sanzioni. Forse quello è stato l’ultimo tentativo per difendere l’autonomia e il prestigio alle formazioni sociali che sono l’intelaiatura della Repubblica (articolo 2 Costituzione) e la cui “moralità” è interesse dell’intera società a prescindere da qualsiasi appartenenza associativa. Se i corpi intermedi sono eticamente fuori controllo a essere compromessa è l’intera vita delle istituzioni e la legalità dell’azione pubblica cui essi concorrono attraverso una miriade di rivoli.

Il mancato punto di svolta

Lungo questa traiettoria il codice etico avrebbe dovuto segnare un punto di svolta e un argine all’azione, naturalmente pervasiva, della magistratura che – dal finanziamento illecito dei partiti alla P2, dall’azione di Confindustria in Sicilia alla gestione dei patrimoni dei partiti – aveva perfettamente compreso la natura potenzialmente eversiva di formazioni sociali fuori controllo e aveva rimodellato l’applicazione di molti reati (appropriazione indebita, falso in bilancio, traffico influenze sino all’immancabile associazione per delinquere) proprio per far fronte all’inerzia disciplinare delle corporazioni. È sotto gli occhi di tutti che lo strumento è abortito e che la stagione dei “codici etici” è tramontata da un pezzo. Ma non senza conseguenze negative. In primo luogo, l’etica, e quel che essa rappresenta, si è da tempo trasferita dal piano delle condotte degli aderenti a quello penale, connotando l’azione dei pubblici ministeri di un disvalore morale del quale doveva restare totalmente priva. La gogna mediatica, in questa traslazione, non è stato solo un effetto secondario o un danno collaterale, ma ha rappresentato la manifestazione stessa della nuova azione etico-penale affidata alle toghe. Simul stabunt simul cadent, come i più furbi ben sanno.

La riscoperta della questione morale

Senza il ludibrio fiammeggiante della stampa la componente etica del controllo giudiziario si sarebbe dispersa irrimediabilmente, trasformando il processo penale in un mero agone laico e tecnico, scevro di preconcetti e precomprensioni morali. Quindi l’aborto dello strumento non ha solo comportato l’evaporazione e l’evanescenza dei controlli inframurari nei corpi intermedi, ma ha conferito all’indagine penale una legittimazione etica che non le poteva e le doveva appartenere per statuto costituzionale. Secondariamente, la brusca riscoperta della questione morale nei partiti e nelle altre formazioni sociali di cui si discute animatamente in questi giorni, vede i corpi intermedi di nuovo disarmati, privi di qualsiasi strumento efficace e sta provocando una escalation istituzionale che è ragionevole ritenere che debba essere prudentemente arginata.

Un percorso insidioso

Le polemiche sulla gestione della pandemia, il clamore per la scoperta del dossieraggio all’interno della Procura nazionale, le vicende elettorali baresi e quelle piemontesi evidenziano – anche – deficit comportamentali e inciampi etici per i quali quasi all’unisono si è richiesto o invocato la costituzione o l’intervento di apposite commissioni parlamentari nel tentativo di canalizzare per quella via le istanze di verifica sulla correttezza e compostezza delle condotte. Un percorso insidioso e dagli effetti imprevedibili. Se le aule parlamentari, le commissioni d’inchiesta in particolare, assumono il ruolo di nuovi censori dell’etica pubblica e si ergono a moderno palcoscenico dell’agone giacobino il rischio è che – al mutare delle maggioranze politiche – si attuino ritorsioni e vendette devastanti per i cittadini quanto le indagini penali. La presunzione d’innocenza è un baluardo assoluto e un valore che permea tutto l’ordinamento repubblicano in quanto riverbero della dignità della persona umana e della sua inscalfibile densità assiologica. Se la morale pubblica diviene un terreno di contesa da spartire tra magistratura e politica e se le istanze di controllo dei comportamenti ambiscono a emulare le movenze del processo, non è detto che la nuova diarchia sia meno pericolosa e nociva del monopolio giudiziario (F. Sgubbi, «Il diritto penale totale»), soprattutto nel momento in cui si realizzano obliqui travasi o le sofisticate sinergie e le parallele convergenze di cui si è avuto una qualche traccia negli ultimi tempi.