Dall’America first di Donald Trump all’America United di Joe Biden. Un passaggio delle consegne o un passaggio d’epoca? Il Riformista ne discute con uno dei più autorevoli analisti di politica estera, profondo conoscitore del “pianeta Usa”, come di quello russo: l’ambasciatore Sergio Romano.

“Aiutatemi a riunire l’America”. È il messaggio-appello lanciato da Joe Biden nel giorno del suo insediamento alla Casa Bianca come 46mo presidente degli Stati Uniti d’America. Ambasciatore Romano, come va letto politicamente questo messaggio?
Credo che il nuovo presidente degli Stati Uniti riconosca l’esistenza di una frattura all’interno della società americana. Naturalmente farà del suo meglio per risanare questa frattura, ma ne riconosce l’esistenza e questo non è sorprendente perché effettivamente questa frattura esiste.

Subito dopo essersi insediato alla Casa Bianca, il neo presidente ha firmato i primi decreti: coronavirus, clima, immigrazione, facendo rientrare l’America nell’Accordo di Parigi e abolendo il Muslim ban fortemente voluto dal suo predecessore.
Credo opportuno tornare alle ragioni per cui Trump aveva vinto nel 2016. Gli Stati Uniti stanno attraversando una fase in cui tutto ciò che di liberal socialista è stato fatto nel corso degli anni, viene contestato da una parte della società americana. Questa parte di società sappiamo che esisteva, è sempre esistita, sappiamo che c’è un’ondata di razzismo presente in una parte della cultura politica degli Stati Uniti che non è mai scomparsa. Naturalmente siamo stati tutti sorpresi dalla presenza alla Casa Bianca di una persona che aggiungeva il carico di un profilo caratteriale del tutto anomalo. Si può essere conservatori negli Stati Uniti, e molti lo sono, ma Trump lo era in un modo che rendeva quasi il conservatorismo ridicolo. Quell’America continua ad esistere. Quell’America che non ama i neri, quell’America che non ama i matrimoni tra persone dello stesso sesso, che in fondo non ama nemmeno i grandi progressi che le donne hanno registrato nel corso degli ultimi decenni. Insomma, questa America conservatrice, ripiegata su se stessa, di cui Trump per certi aspetti ne è diventato l’interprete, non scompare con l’uscita del suo paladino dallo Studio Ovale. Di questo Biden ne è consapevole e dovrà, anche dentro certi limiti, tenerne conto. Biden sta approfittando dell’intoccabilità del presidente degli Stati Uniti nelle sue battute iniziali, per fare delle cose che forse di qui a qualche mese avrebbe avuto maggiori difficoltà a fare. Il clima, per esempio, non piace ad una parte della società americana. Quando Trump ha buttato nel cestino il grande accordo di Parigi, c’erano molti americani che erano perfettamente d’accordo. Continuo a sostenere che gli Stati Uniti non sono una repubblica democratica, sono una monarchia repubblicana. E hanno delle monarchie delle caratteristiche facilmente riconoscibili…

Un esempio in tal senso?
Che cosa ha fatto Trump nelle ultime ore della sua presenza sul trono? Ha perdonato, ha amnistiato, ma queste sono virtù monarchiche. Perché così è fatta l’America. Perché l’America è una “monarchia” repubblicana. Questo non significa che non sia democratica: il popolo è presente, il popolo si esprime, ma in qualche modo non è una repubblica democratica.

Nella prima conferenza stampa, la nuova portavoce della Casa Bianca, ha affermato, cito testualmente: “I piani per i negoziati con l’Iran saranno parte delle prime consultazioni del neo presidente con gli alleati”. Con l’Iran, si cambia?
L’Iran lo spera molto. In questo momento le autorità iraniane, e ancor più il popolo iraniano, stanno riponendo molta speranza nell’elezione di Biden. Ancora oggi lo leggevo in una rassegna della stampa internazionale: il quotidiano in lingua inglese di Teheran parlava del ritorno al vecchio accordo sul nucleare. Mi riferisco all’accordo realizzato con il Gruppo 5+1, fortemente voluto dall’allora presidente Obama. Un accordo che permetteva all’Iran di riprendere con alcune limitazione il lavoro sull’uranio.

Alle speranze del presidente iraniano Hassan Rohani fa da contraltare se non la freddezza di certo lo scarso entusiasmo con cui il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha accolto l’elezione Biden. Una freddezza tanto più significativa se rapportata all’entusiasmo con cui lo stesso Netanyahu aveva celebrato la vittoria di Trump nel 2016. Cosa c’è da attendersi su questo versante?
Bisogna riconoscere che il rapporto di Netanyahu con Trump è stato particolarmente felice. Non dimentichiamo che da quell’amicizia è nato l’accordo con alcuni Paesi arabo musulmani: l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Sudan. Possiamo rimproverare a Trump tante cose, ma non quell’accordo. Qualcuno potrebbe sostenere che è stato fatto con i Paesi che hanno meno rapporti felici con la democrazia. Però quell’accordo c’è stato e non si può buttar via. E Biden non lo farà.

Trump, miliardario, è stato il paladino dell’anti globalizzazione, contro la delocalizzazione industriale, ottenendo così il consenso delle tute blu, della working class bianca.
Anzitutto credo che occorra ricordare che Trump ha esagerato il suo essere miliardario, perché pare che non lo sia poi a tal punto e che comunque abbia conquistato una posizione finanziaria invidiabile in modi molto poco rispettabili. Vuole essere miliardario, perché esserlo negli Stati Uniti, o piuttosto in quella parte degli Stati Uniti di cui lui desiderava il voto, è considerata una virtù. Quanto alla globalizzazione: piace a tutti gli americani? Non ne sono sicuro. Perché se a un certo punto la globalizzazione favorisce anche e soprattutto, come è accaduto, la Cina, molti americani considererebbero questo non solo non approvabile ma addirittura rischioso, pericoloso. Un presidente che faceva la voce grossa nei confronti della Cina era destinato ad avere un successo, almeno in una parte, non certo marginale, della società americana. E anche di questo Biden ne è pienamente consapevole.

Biden è il presidente più anziano nella storia degli Stati Uniti, ed ha affermato già adesso che tra quattro anni, scaduto il suo primo mandato presidenziale, non ripresenterà la sua candidatura. Questo significa che la vice presidente Kamala Harris potrà essere in questi quattro anni, una sorta di presidente “ombra”?
Anzitutto dobbiamo ancora imparare a conoscerla bene. Sarà per certi aspetti la persona su cui terremo maggiormente gli occhi aperti nella speranza di capire se effettivamente è destinata ad avere una influenza sulla società politica americana che si prolunghi nel tempo. Biden sarà un presidente molto diverso, certamente molto simpatico sotto il profilo umano. Però non sarà un presidente forte. Altrimenti lo avremmo scoperto prima. Mi pare che la sua grande fortuna politica sia di venire dopo Trump.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.