Chi mettere in lista? Quali professionisti della politica, quali intellettuali, artisti, imprenditori offrire agli elettori? Questione complicata come poche per la democrazia rappresentativa, questa delle candidature. Terreno infiammato da lotte fra correnti e ambizioni personali, cocktail di competenze politiche e specchietti per le allodole.

Una vecchia storia, come si sa. Finché non arrivò Lui, edificatore di città, padrone di tivvù pop, signore di squadre di calcio stellari, e allora i dilemmi sembrarono improvvisamente sciogliersi: Berlusconi diventò il candidato unico. Io sono uno di voi, aveva detto agli italiani, sebbene l’equivalenza fosse, per certi versi, assai azzardata. Ma, per altri versi, non lo era affatto. Come Lui, gli italiani amavano da sempre la casa di proprietà anche a costo di sanguinosi mutui, e poi il piccolo schermo, e la domenica pomeriggio “Tutto il calcio minuto per minuto”. Quindi, se Berlusconi era il candidato unico, allora tutti gli italiani erano candidati. Un’operazione geniale, che avrebbe attratto sul fenomeno glorioso della leadeship carismatica l’attenzione di fior di politologi come Mauro Calise. E che fu copiata dagli altri partiti e partitini. Nei loro bottoni elettorali non spiccavano più i minacciosi simboli della guerra fredda, bensì, a caratteri più o meno cubitali, i candidati unici: Bossi, Fini, Salvini, Meloni, Casini, Di Pietro, Monti, Vendola, Veltroni, Grillo, Bonino, Calenda. Tutti. Del resto i volubili regolamenti elettorali, tra collegi uninominali e “listini bloccati”, stavano impietosamente tagliando l’erba sotto i piedi al libero arbitrio dell’elettore. E l’elettore, per parte sua, non sembrò ritenersi più di tanto forzato, votò i candidati unici e dimenticò le preferenze, anche perché gli avevano fatto credere che le preferenze fossero la sentina di tutti i vizi. Al più, magari durante qualche weekend assolato, evitò di recarsi alle urne. Il che, oltre certi limiti, non è una bella cosa.

Il colpo di genio del Cavaliere, e cioè la fine della Repubblica dei partiti e l’inizio della Repubblica dei leader, era del resto la coda di una lunga storia. Il ceto politico postfascista, prosciugato da vent’anni di digiuno democratico e innominabilmente arricchito dalle conversioni di schiere di reduci, si era presentato agli italiani – al paese non più fascista e solo in parte antifascista – con un’offerta elettorale che non sembrava la più facile da essere digerita. La sinistra aveva puntato sul popolo dei campi e delle officine e sul carattere universale e semplificato del messaggio ideologico: pace, pane, emancipazione del lavoro, un comunismo da dopoguerra. Dall’altra parte, la Balena Bianca – nel cui ventre stava finendo l’intero mare magnum del moderatismo, del conservatorismo e pure del nostalgismo reazionario – stravinse nel 1948 grazie alle divisioni del Papa, alle capillari associazioni cattoliche, all’invincibile rete delle parrocchie. E alla paura del comunismo. Poi, nei decenni successivi, cercando di fornire di basi più robuste il proprio personale, i grandi partiti crearono vere e proprie scuole di cultura politica e di formazione alla militanza, le Frattocchie (dapprima intitolate addirittura al compagno Ždanov), la fanfaniana Camilluccia, il Gramsci, lo Sturzo.

E tuttavia, se una cosa si può dire della prima Repubblica, è che il suo personale politico non fu mai particolarmente amato. Non erano amati De Gasperi, o Moro, o Andreotti. E, più che amati, erano costruiti dal culto della personalità i leader della sinistra, a partire dal Migliore. Una distanza, questa tra elettori ed eletti, che affondava le radici nella ruvida e spaesata transizione dell’Italia post-fascista alla democrazia, ma che, andando avanti nel tempo, trovava ragioni non incomprensibili e anzi robuste nelle progressive défaillance delle politiche pubbliche (che fossero governative o consociative) e in un sistema che non prevedeva l’alternanza.

Né sembrò sanare quello strisciante disamore della gente nei confronti dei propri rappresentanti il ricorso agli “esterni”, alla candidatura di personalità non iscritte ai partiti. Scrittori, uomini di spettacolo, professionisti, imprenditori. Il Pci era da tempo il padrone della caccia grossa, del reclutamento delle stelle della società civile. Aveva sempre avuto un rapporto intenso con gli intellettuali, non di rado li aveva presi di peso dall’intellighentia fascista, li aveva educati all’obbedienza. Come dimostrò il dileggio che Togliatti volle dedicare personalmente al povero Vittorini. L’egemonia culturale non era un gioco da ragazzi, le farfalle non potevano avvicinarsi troppo senza bruciarsi le ali. Fatto sta che, dagli anni Sessanta, comparvero in parlamento gli “indipendenti di sinistra”, i pezzi da novanta come Raniero La Valle e Altiero Spinelli, Carlo Levi e Giorgio Strehler, Antonio Cederna e Natalia Ginzburg, Eduardo De Filippo e Gino Paoli.

Sarebbe tutto da vedere, peraltro, fino a che punto i decenni dell’egemonia culturale comunista e dell’engagement dei colti riuscisse ad acquietare i malumori di un‘opinione pubblica preoccupata piuttosto dalla pressione fiscale, dall’inflazione, dalla crescita del debito di stato. Di certo, quella stagione rese ancor più forte la tensione pedagogica della politica, la sua pretesa di indicare valori pubblici e privati, la sua presenza invasiva nella produzione di cultura scritta, nei mezzi di comunicazione, nella televisione di Stato. E quando le toghe di Mani Pulite fecero un grande falò dei partiti (e dei candidati dei partiti), il ciclo del disamore poté compiersi in tempi straordinariamente rapidi. I partiti crollarono, le rappresentanze parlamentari andarono in fumo tutte assieme, nel 1994 comparvero nuove formazioni politiche, nuove coalizioni, nuovi candidati. E soprattutto comparvero i candidati unici, i volti dei leader che diventavano i simboli su cui apporre la fatale croce. La loro biografia sostituiva l’ideologia dei partiti, ha scritto una volta Marco Damilano.

E, prima di ogni altra, la biografia di Berlusconi fu il motore identitario del suo nuovo partito. Ma non fu solo questo. Era la biografia della nazione. Berlusconi, ha scritto Giovanni Orsina, smontava dalle fondamenta la pedagogia politica della prima Repubblica, assolveva gli italiani dai loro presunti vizi, li addebitava semmai proprio ai partiti. Era cioè il candidato unico ideale. Non a caso, dopo un innamoramento distratto per alcuni maîtres à penser, il Cavaliere lasciò perdere qualsivoglia ubbìa di egemonia culturale. La cultura alla quale si riferiva – e per la quale non esitò a scegliere candidati poi messi in croce dagli strali morali della sinistra – era una cultura pop. Ed ebbe successo per oltre un quarto di secolo.

Oggi, con i partiti in briciole e gli stessi leader in buona misura ridimensionati, il nodo delle candidature torna in versione da prima Repubblica azzoppata. Si mettono assieme notabili locali, signorotti di modesti gruzzoli elettorali, corridori inesausti da uno schieramento all’altro. Si recuperano volti mediatici e vicende personali in grado di scuotere una società civile che tuttavia appare ormai refrattaria alla facile seduzione. E non manca, a destra, chi sembra credere alla possibilità di costruire una sorta di alternativa all’egemonia culturale della sinistra d’antan, magari rispolverando un conservatorismo italiano ed europeo anch’esso d’antan. Ricominciare cioè con il reclutamento dei chierici? Sembra opinabile. Forse ci vorrebbe altro per scuotere la foresta dell’astensionismo, per battere la (ragionevole) volatilità degli elettori. Non i nani e le ballerine, d’accordo, ma neppure gli epigoni di Prezzolini, tanto per fare un nome.