Tra ritagli di archivio, bozze di appunti per una storia che verrà, pezzi di cronaca di oggi e quella di qualche tempo fa, la storia politica di questo paese è segnata da casi di persone più o meno note candidate al parlamento nazionale e poi a quello europeo non per le loro idee politiche ma per sottrarli ai meccanismi perversi della malagiustizia. Testimonial, loro malgrado, di diritti negati, a volte veri e propri soprusi. Dal cavatore anarchico di Carrara Augusto Fusani – e siamo alla fine dell’Ottocento – ad Ilaria Salis passando per Pietro Valpreda, Toni Negri, Enzo Tortora e tutti gli altri che non si riesce qui a ricordare. Sono le due facce della stessa medaglia: la debolezza della politica. Da una parte le candidature civiche, antesignane delle più moderne liste civiche, inizio della forma partito fluida e subito sintomo della progressiva e attuale inconsistenza di partiti infiltrati da ogni dove da faccendieri e opportunisti. Dall’altra i partiti – in genere i più piccoli e identitari – che candidano persone vittime di ingiustizie e violazione dei diritti.

Augusto Fusani

Quella di Augusto Fusani è una storia antica, poco nota, che prende forma tra vecchi ritagli di giornale e gli archivi della Camera. Nel 1894 la Lunigiana, spicchio a nord della Toscana stretto tra la Liguria e l’Emilia, è teatro di moti anarchici, muore un carabiniere, un altro viene ferito, muoiono anche alcuni manifestanti. I giornali ne scrivono molto. Il governo Crispi ha il pugno di ferro, compie decine di arresti, processo e condanne non vanno per il sottile. Tra i fermati, e poi condannati, c’è questo quarantenne cavatore di Carrara, sicuramente anarchico, padre di tre figlie che si proclama però innocente. Così come innocente lo considerano i suoi concittadini che organizzano, per quello che era possibile allora, una sorta di comitati civici per la liberazione. Che non arrivò mai e fu allora sostituita dalla candidatura alla Camera dei deputati. Non c’entravano le idee e l’ideologia ma la convinzione che quel padre di famiglia fosse vittima di un errore giudiziario e dovesse uscire il prima possibile per dare sostentamento alla famiglia e alle tre figlie. Fusani fu eletto nel 1900, negli archivi risulta “deputato della XXI legislatura del Regno”. Con un salto siderale si arriva alle elezioni politiche del 1972. È l’Italia in piena strategia della tensione ma non ancora consapevole.

Valpreda e la strage di Piazza Fontana

Il 12 dicembre 1969 un ordigno lasciato in una borsa nel salone della Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana uccide 17 persone, 88 sono i feriti. Divenne poi “la madre di tutte le stragi” e “il primo e più dirompente atto terroristico dal dopoguerra”. Per quella strage il 16 dicembre fu fermato e arrestato Pietro Valpreda, milanese, un artigiano con simpatie anarchiche da poco trasferito a Roma per lavorare come ballerino dell’avanspettacolo anche in tv. Era stato riconosciuto da un tassista – Cornelio Rolandi che si beccò anche i 50 milioni di lire della “taglia” – che senza esitare in questura a Milano disse: “È lui”. Valpreda, che si è sempre proclamato innocente, fu poi assolto per la strage di piazza Fontana nel 1975 quando gli indizi sugli estremisti di destra infiltrati nei circoli anarchici divennero prove. La magistratura però non poteva ammettere un abbaglio così clamoroso e già che c’era gli dettero cinque anni per associazione a delinquere. In quei sei anni, dall’arresto all’assoluzione, Valpreda fu vittima di un linciaggio mediatico spaventoso. Fu “il mostro di piazza Fontana”. Su l’Unità fu descritto come un personaggio “ambiguo e sconcertante, dal passato oscuro, forse manovrato da qualcuno a proprio piacimento”. Il Tg1 lo indicò come “il vero e sicuro colpevole”. In quell’Italia lì, solo i ribelli de “Il Manifesto” (anche Indro Montanelli ebbe forti dubbi) non accettarono il main stream dell’epoca e decisero di candidarlo alle elezioni politiche del maggio 1972. Perché la detenzione era ingiusta sia sul piano degli indizi che per modalità. Valpreda fu candidato non in quanto anarchico ma perché vittima della giustizia. Non fu mai eletto perché prese solo 10.785 voti. Fece una carcerazione preventiva di 1110 giorni. Il 29 dicembre 1972 fu messo in libertà condizionata per decorrenza termini e solo perché l’Italia, e il Parlamento, s’interrogano sulla necessità di mettere un limite alla carcerazione preventiva anche per reati gravissimi come la strage. Tre anni dopo fu assolto. E dimenticato. E con lui la vergogna di un errore giudiziario clamoroso. L’Italia, l’opinione pubblica, in un paese segnato da bombe (nel 1974 ci furono piazza della Loggia e l’Italicus) non ebbero la lucidità e la maturità di capire, di farsi domande e cercare di andare oltre le ricostruzioni della magistratura risultate poi spesso avvelenate da servizi segreti deviati.
Lucidità e maturità che arrivarono negli anni a seguire. Eppure per casi diversi. E anche con esiti diversi.

Il caso Tortora

Il caso Tortora è ancora lì che brucia sulla pelle e alimenta la rabbia. La notte del 17 giugno 1983 il giornalista Enzo Tortora, l’uomo che stava rivoluzionando la tv, conduceva la Domenica sportiva e anche Portobello, fu arrestato dalla procura di Napoli per associazione camorristica e traffico di droga. Contro di lui i pm avevano raccolto una serie di dichiarazioni di alcuni pentiti di area cutoliana. I riscontri erano poco più di zero, biglietti con scritte che i periti non erano stati neppure capaci di leggere. Tortora era un beniamino del pubblico e più era la fama e più si scatenò contro di lui l’ottusità dei magistrati. Nonostante gli indizi inesistenti perché fasulli Tortora fece 271 giorni di carcere preventivo. Il 17 gennaio 1984 gli furono concessi gli arresti domiciliari restando in attesa di giudizio. Una mostruosità a cui mise rimedio il Partito Radicale, l’unico che aveva iniziato in quegli anni le battaglie contro la mala giustizia. Tortora fu candidato all’europarlamento per spezzare una detenzione ingiusta e fare luce su accuse infondate. Fu eletto il 7 maggio 1984 con 414.514 preferenze. L’Italia aveva capito e aveva deciso. La magistratura ancora no. Il 20 luglio l’immunità lo fece uscire dal carcere. Durante il processo, a cui l’eurodeputato non si è mai sottratto, il procuratore Diego Marmo lo definì in aula “un cieco mercante di morte” diventato “deputato con i voti della camorra”. Il 17 settembre 1985 Tortora fu condannato a dieci anni. Il 13 dicembre si dimise da Parlamentare rinunciando all’immunità e il 29 dicembre andò agli arresti domiciliari. L’assoluzione totale e definitiva è arrivata a settembre 1986. I camorristi pentiti finirono sotto processo per calunnia. Giustizia tardiva perché nel frattempo il dolore e l’umiliazione avevano attaccato il corpo del giornalista che morì due anni dopo. I Radicali avevano fatto la scelta giusta ma non fu sufficiente.

Toni Negri

I Radicali fecero la scelta giusta anche con Toni Negri? Qui la risposta è più difficile. “Cattivo maestro per qualcuno”, intellettuale e filosofo per altri, per il procuratore Calogero Toni Negri era non solo il leader di Autonomia operaia ma anche colui che “predicava la violenza politica” e quindi la lotta armata. Negri fu arrestato a Padova il 7 aprile del 1979. Anche lui, dopo anni di detenzione preventiva, fu candidato da Marco Pannella per le politiche del 1983. Era tutta un’altra Italia rispetto a quella che distrattamente non aveva capito il caso Valpreda. Pannella ne fece il simbolico portabandiera per la riforma dell’istituto dell’immunità parlamentare e per la modifica delle cosiddette leggi speciali che, negli anni del terrorismo, consentivano la carcerazione preventiva di oltre dieci anni. Negri fu eletto alla Camera dei deputati dopo quattro anni e mezzo di carcerazione preventiva. Grazie all’immunità, uscì di prigione. Ha preso possesso del seggio a fine giugno. A fine settembre la Camera doveva votare l’autorizzazione a procedere per l’arresto. Ma il Professore scappò con uno yacht privato da Punta Ala destinazione Nizza. Pannella rimase beffato. Ma fino alla fine dei suoi giorni, nonostante il tradimento, ha rivendicato la scelta della candidatura in nome dei diritti del carcerato. Negri è stato condannato a dieci anni per sovversione e reati associativi. Quanto è tornato in Italia (1997) ha scontato quello che doveva della pena.

Ilaria Salis

Si fanno oggi i paragoni tra Ilaria Salis e Toni Negri perché entrambi condannati e con precedenti. I due casi non sono minimamente paragonabili. Salis ha una condanna per concorso esterno e resistenza a pubblico ufficiale: ha lanciato sacchi pieni di immondizia contro le forze dell’ordine durante lo sgombero di un centro sociale a Milano. Correva l’anno 2014. Un po’ come quando il giovane Salvini, all’epoca in forza al Leoncavallo, lanciava le uova contro Massimo D’Alema e fu denunciato per oltraggio. Altri malignano che nella candidatura di Salis non ci sia alcuna nobiltà ma solo calcoli per entrambi: a lei per uscire da quel carcere maldetto dove rischia otto anni; all’alleanza Verdi e Sinistra per raccogliere qualche voto in più. Pochi ragionano sul fatto – il più grave – che in nessun paese al mondo e meno che mai in Europa, cioè in Ungheria, si possa trascinare in ceppi e catene una persona in attesa di giudizio che si proclama innocente.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.