Certe lune di miele durano più del previsto (e di quanto succede nelle vicende amorose). Come mostra il voto delle ultime regionali in Abruzzo, che ha riconfermato Marco Marsilio quale governatore e riconsegnato la vittoria al destracentro. Ribadendo come occorra fare molta attenzione nel trasformare un voto amministrativo locale nel segno inequivocabile di un trend nazionale, e come ogni elezione territoriale faccia fondamentalmente storia a sé. E, dunque, la vittoria (per 1600 preferenze e in un contesto di voto disgiunto) di Alessandra Todde in Sardegna non ha coinciso con l’annuncio di una riscossa irreversibile e necessitata del centrosinistra – o, per meglio dire, del sinistracentro (anche perché, nella fattispecie, si trattava sostanzialmente dell’alleanza Pd-M5S) – e, verosimilmente, fra i protagonisti del (complicato) “campo largo” si era ecceduto negli scorsi giorni in ottimismo, anche se il candidato abruzzese (l’ex rettore dell’Università di Teramo Luciano D’Amico) possedeva molte caratteristiche e qualità giuste per risultare competitivo.

Così, nella Regione che aveva eletto uno dei primissimi presidenti targati FdI, la pur litigiosa maggioranza di governo – all’insegna di un riequilibrio di forze (in primis fra Forza Italia e Lega) destinato ad ulteriori ripercussioni – si è riconfermata vittoriosa. Se gli scricchiolii dentro l’esecutivo si manifestano e i sondaggi mostrano qualche flessione, nondimeno – nel quadro di un astensionismo che cresce in maniera incessante – il destracentro resta maggioritario. Anche, giustappunto, per assenza di un’alternativa davvero praticabile sotto il profilo dei numeri e del codice di condotta interno al centrosinistra, dove le rivalità permangono e vari nodi politici di rilievo – a partire dalle linee di politica internazionale, in primis a proposito del sostegno all’Ucraina – non vengono adeguatamente chiariti. E la responsabilità maggiore rimane in capo al Movimento 5 Stelle, che Giuseppe Conte ha convertito de facto nel suo partito personale – dopo essere stato quello bipersonale di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio –, i cui elettori si recano alle urne se la coalizione giallorossa esprime un candidato pentastellato, mentre tendono prevalentemente ad astenersi in caso contrario.

Una situazione che indebolisce da dentro il sinistracentro e si aggiunge ad altre questioni di rilievo irrisolte (accanto all’assenza di un orientamento di politica estera comune): dalla mancanza di una leadership unitaria alla carenza di idee – cosa che richiede anche il superamento di certi dogmi – su come cercare di essere attrattivi per quei settori del voto moderato dubbiosi o contrari al populismo (non soltanto delle destre ma at large). Un cantiere che, da lunedì mattina, si è fatto ancor più macchinoso e faticoso, e che il voto proporzionale delle europee – il prossimo, essenziale banco di prova –, con la prospettiva dell’intensificazione delle distinzioni e dei distinguo, non agevola di sicuro. Il melonismo continua a scontare un problema (e un deficit) di classe dirigente, ma può contare su un partito strutturato e articolato a livello dei territori.

E la premier si è avvantaggiata finora di quella che è la vera nota di fondo delle sue policies di governo: l’attendismo e l’aggiustamento minimale (un ritocco qui e uno là…), accompagnati dalla ferrea difesa corporativa delle constituencies elettorali che sono state fedeli nel tempo alle metamorfosi della destra da lei capeggiata. Ma pure per Giorgia Meloni è destinata, prima o poi, a scoccare l’ora della verità. Una (potenziale) orda – lia che risponde al nome di riforma – o, allo stato attuale, controriforma – costituzionale del premierato.