Tra le Regionali e le Europee, lo scenario politico si va assestando. Ne abbiamo parlato con Giovanni Orsina, politologo, professore ordinario di storia contemporanea alla LUISS Guido Carli di Roma e docente presso la School of Government della stessa università.

In Abruzzo le urne hanno parlato. Cosa hanno detto?

«Hanno detto cose che almeno in parte già sapevamo. Non si deve esagerare il significato di questo voto: sono test interessanti ma limitati. Le urne hanno ribadito che, se da una parte c’è una vera e propria coalizione politica, sia pure con le sue tensioni interne, i suoi limiti e i suoi difetti, dall’altra ci sono dei partiti scollegati che localmente si sono messi insieme intorno a un candidato dignitoso – e hanno avuto un risultato più che dignitoso».

Il tagliando per il Campo largo è rimandato a una prossima tappa.
«Mentre nel 2019 sinistra e M5S sommati superavano il 51%, ma Marsilio vinse con il 48% perché erano divisi, oggi mettendoli insieme arrivano al 46,5%. Se manca l’operazione politica, quella elettorale non supplisce».

La quantità non fa la qualità: manca un federatore, un leader.
«Nel 2022 il centrodestra ha vinto col 44%, ne risulterebbe che gli altri sono al 56%. Che non è poco. Se ne può anche perdere un pezzo, rimanendo maggioranza. C’è spazio di manovra».

Cosa manca?
«La politica, o meglio: una operazione di convergenza politica. Manca un federatore. E c’è il problema di un elettorato che, diversamente da quello di destra, fatica a unificarsi. Perché i suoi vari segmenti hanno posizioni politiche differenti e non amano il compagno di banco. Anzi».

Spesso più veti che voti, tra compagni di banco.
«Ci sono fratture politiche reali, a partire dalla politica internazionale, tema centralissimo oggi e chissà per quanto tempo ancora. Come possono Calenda e Renzi – ma anche pezzi del Pd – lavorare con un Conte che non dice chi preferisce fra Trump e Biden? Poi ci sono elementi personalistici forti. Infine, il centro di questa operazione è il Partito Democratico: un partito rissoso, conflittuale, correntizio».

Però il Pd tiene, guadagna perfino qualche punto. E risale Forza Italia. Che segnali sono?
«C’è una richiesta di stabilità. Il clima è decisamente cambiato rispetto al 2013-2022, il periodo del grande circo fatto di caos, improvvisazione e massima volatilità. Pensiamo alle alleanze scombinate, a personaggi usciti dal cilindro. Per questo ad esempio la leadership tranquilla di Antonio Tajani continua a crescere».

E lo stesso vale per il Pd?
«Sì, Elly Schlein consolida una identità di partito di sinistra che beneficia degli errori di Calenda e Renzi. Chi vuole opporsi a questo governo dove va, altrimenti?».

La rissosità di Renzi e Calenda crea le premesse per il placido corso dei Dem?
«Non sta nascendo nel centrosinistra niente che possa mettere in pericolo il Pd. Un polo Renzi-Calenda potrebbe attrarre. Ma le difficoltà endemiche di quel campo, talvolta più personali che politiche, hanno disinnescato quella potenzialità».

Il centrismo è finito?
«Il blocco centrista è stato a lungo sopravvalutato. Vale secondo me il 10-12% dei voti. Il che vuol dire che può contare soltanto andando o con Meloni da un lato, o col Pd dall’altro».

Cosa prevede per il prossimo futuro?
«Dopo le Europee vedremo come evolverà la fase politica attuale. Dal 2022 a oggi il ciclo del voto di protesta si è chiuso e siamo già entrati in una fase nuova. Lo dimostrano i sondaggi sostanzialmente fermi da due anni».

Chi può essere il leader che incarna il rilancio nel mondo riformista?
«Oggi nessuno. Un centrosinistra moderato non ha più un interprete con le caratteristiche adatte».

Cercasi riformista?
«Sì, ecco. Disperatamente».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.