Come un torrente carsico, è nuovamente riemerso il tema del voto dei c.d. fuori sede. Come evidenziato dall’approfondito Rapporto “Per la partecipazione dei cittadini: come ridurre l’astensionismo e agevolare il voto”, pubblicato dal Dipartimento per le riforme istituzionali lo scorso 14 aprile, il crescente astensionismo elettorale (che talora ha superato la soglia psicologica del 50% degli aventi diritto), è dovuto non solo a chi – per protesta o indifferenza – pur potendolo non vuole votare ma anche a chi pur volendolo non può votare.

Questo astensionismo c.d. involontario, nelle società odierne sempre più diffuso, è dovuto al fatto che per validi e comprovati motivi di varia natura (studio, lavoro, cura) circa 5 milioni di elettori vive molto lontano dal comune di residenza nelle cui liste elettorali risulta iscritto e per questo ha difficoltà a ritornarvi il giorno del voto per ragioni diverse, non ultime il costo del viaggio, solo in minima parte rimborsato dallo Stato. Si stima che di questi 5 milioni di elettori, per andare e ritornare dal comune di residenza, quasi 2 milioni impiegherebbe almeno quattro ore, 800 mila circa tra le quattro e le otto ore, 500 mila tra le otto e le dodici ore e ben 700 mila oltre le dodici ore di viaggio. Dinanzi a tale fenomeno sarebbe inutile fare appello al dovere civico di voto (art. 48.2 Cost.) non solo perché oggi il suo mancato “libero esercizio” non va incontro ad alcuna sanzione (come invece accadeva in passato quando il nominativo del non votante era iscritto in un apposito elenco esposto per un mese nell’albo comunale e nel suo certificato di buona condotta, necessario per l’accedere al pubblico impiego, veniva inserita per cinque anni la menzione “non ha votato”) ma anche perché il voto, più che imposto come obbligatorio va piuttosto garantito e promosso dalla Repubblica” (art. 4 cit.), come in questo caso “rimovendo gli ostacoli che ne impediscono di fatto l’esercizio” di tale diritto, come impone l’art. 3, comma 2, Cost. affinché tra i cittadini vi sia un’eguaglianza non solo formale ma anche sostanziale.

Già oggi nelle elezioni politiche ed europee nonché in occasione dei referendum alcuni elettori possono votare in un comune diverso da quello di residenza: i componenti degli uffici elettorali; i rappresentanti di lista; i candidati all’interno del collegio plurinominale dove sono proposti; gli agenti della forza pubblica; i militari, i naviganti; i degenti in ospedali e case di cura. A costoro si sono aggiunti dal 2015 quanti si trovano da almeno tre mesi in un Paese estero in cui non sono anagraficamente residenti (come ad esempio gli studenti Erasmus) i quali in occasione delle elezioni politiche possono votare per corrispondenza nella circoscrizione estero. Si è trattato di una modifica significativa perché, al pari degli italiani all’estero, si è ribadita la scelta per una modalità di voto non presidiata – quella per corrispondenza – che se permette l’esercizio del diritto di voto non garantisce per sua natura che esso sia personale, libero e segreto, così come richiesto dall’art. 48.2 Cost. In altri termini, in un’ottica costituzionale di bilanciamento, libertà, segretezza e personalità sono caratteristiche essenziali del voto che però possono già ora essere derogate allorquando l’esercizio di tale diritto verrebbe altrimenti compromesso.

In secondo luogo, se si è garantito il voto di chi è temporaneamente all’estero, non si vede perché non lo si possa fare anche per chi invece in Italia è temporaneamente domiciliato fuori dal comune di residenza, a meno che si voglia ritenere ragionevole la conseguenza per cui ad esempio, che, a parità di motivazioni, un calabrese domiciliato a Ventimiglia non può votare mentre lo può fare chi si trova a Nizza benché le due città distino appena 40 km. Per questo motivo le quattro proposte di legge – tutte presentate da forze politiche di opposizione (Pd, +Europa, Iv e Alleanza Verdi Sinistra) – muovono dal comune presupposto di ampliare quanti possano votare fuori dal comune di residenza nella cui liste elettorali sono iscritti, senza quindi essere costretti a tornarvi. Esse, piuttosto, si differenziano sui motivi per cui si può votare in tal modo, in quali elezioni (non solo politiche o europee ma anche regionali e comunali, oltreché nei referendum) e soprattutto sul come garantire l’esercizio del diritto di voto.

A quest’ultimo riguardo non pare possibile conteggiare il voto dei fuori sede per la circoscrizione e per il collegio in cui sono temporaneamente domiciliati perché per Costituzione i seggi vanno distribuiti in base agli abitanti, e cioè ai residenti sulla base dell’ultimo censimento. Tra l’altro, spostare i seggi – anziché solo i votanti – significherebbe esporsi – inutile nasconderselo – a possibili inquinamenti da parte di “truppe cammellate” il cui voto potrebbe non essere irrilevante, proprio per la dimensione del fenomeno, specie nei collegi uninominali c.d. contendibili cioè laddove la serie storica dei risultati elettorali dimostri l’esistenza di scarti minimi tra i candidati. Piuttosto la soluzione migliore sarebbe quella di far votare i c.d. fuori sede non per corrispondenza ma il giorno prima in un’apposita sezione elettorale tra quelle del comune di domicilio, la quale provvederebbe allo spoglio delle schede ed a comunicarne l’esito all’ufficio elettorale del comune di residenza, evitando così il “viaggio delle schede elettorali” da un comune all’altro, ipotesi rispetto alla quale l’amministrazione dell’Interno si è detta contraria per gli insormontabili problemi logistici ed i connessi rischi.

L’auspicio è che tutte le forze politiche, incluse quelle di maggioranza che sinora non hanno presentato proposte di legge in tal senso, trovino un’intesa su un tema, come il contrasto all’astensionismo elettorale, che dovrebbe essere di comune interesse anche per riaffermare il primato della politica sull’amministrazione, del Parlamento sul Governo, affinché le eventuali difficoltà tecniche e operative finora opposte dal Ministero dell’Interno non fossero tali da impedire il preminente compito costituzionalmente assegnato alla Repubblica di garantire il diritto di voto a chi, pur volendolo, non può di fatto esercitarlo.