L’Italia ha un primato. È l’unico Paese al mondo che utilizzerà il voto elettronico attraverso un computer o un cellulare già nel 2022. Non è un primato di cui andare fieri e a dirlo sono gli scienziati e gli studiosi di tutto il mondo. Tutti gli Stati che ci hanno provato hanno, al momento, abbandonato la strada: il voto online è insicuro. Ma come è stato possibile che l’Italia vada in netta contro-tendenza?

Chi lo ha proposto, per quali motivi e quali sono davvero i rischi? Il partito del voto on line ha uno zoccolo duro in ampie fette del Movimento Cinque stelle: fu il fondatore Gianroberto Casaleggio a introdurre l’idea. Oggi quell’intuizione trova posto nell’agenda del governo Draghi ai massimi livelli. Ma il progetto ha prodotto una spaccatura netta all’interno del governo e degli stessi partiti. Non solo: l’azione governativa è ammantata da una strana riservatezza, un’opacità di fondo inspiegabile. Di sicuro c’è che il prossimo anno si sperimenterà il voto online anche con uno smartphone o un pc. Lo prevede un decreto del 9 luglio 2021 firmato dal ministro Luciana Lamorgese e dal suo collega a capo dell’innovazione tecnologica Vittorio Colao.

Il decreto è figlio di una scelta compiuta dall’asse M5S-Lega ai tempi del primo governo Conte e prevede la sperimentazione già nel 2022 del voto elettronico per le elezioni politiche ed europee, per i referendum, le regionali e amministrative. Attraverso una applicazione web l’elettore può accedere con qualsiasi dispositivo digitale collegato alla rete internet. Lo scopo è semplice: agevolare la possibilità di voto degli italiani all’estero e degli elettori fuori sede per motivi di lavoro, studio o cure mediche. Fin qui tutto bene. Ma lanciare la funzione più importante di una democrazia da un grattacielo tecnologico ha degli enormi rischi. Per intenderci: Stati Uniti, Svizzera, Germania insieme a Olanda, Norvegia e Francia hanno affrontato la questione e l’hanno chiusa dopo ampi e pubblici dibattiti. Nessuno usa il voto on-line tranne l’Estonia che ha poco più degli abitanti della provincia di Milano.

L’esempio francese merita di essere raccontato. Nel 2017 il voto elettronico fu introdotto e poi sospeso per attacchi informatici. Oggi è una delle alternative possibili offerte al votante ma è escluso per l’elezione centrale della vita repubblicana, cioè le Presidenziali. I motivi sono essenzialmente due. Uno di natura tecnica: nessuna tecnologia è al momento affidabile per evitare brogli e intromissioni, nessuna app può garantire la sicurezza men che meno in un telefono o su un pc privato. Il secondo motivo è di natura più politica: il voto on line non può garantire i requisiti di libertà e segretezza previsti a tutela del voto democratico. Il voto elettronico può essere facilmente controllabile e “vendibile”. Non per nulla nei seggi elettorali non è permesso fotografare la scheda. C’è poi la questione dell’integrità del voto, vale a dire il possibile riconteggio delle schede. Gli esperti sostengono che il riconteggio significherebbe che il voto non sarebbe più segreto ma riconducibile a chi lo ha espresso.

Tutto il processo elettorale inoltre può essere distrutto per sempre con un’azione di sabotaggio. Una possibilità da brividi, un golpe armato di algoritmi. Di recente la comunità informatica italiana – che raggruppa i docenti e i ricercatori universitari del settore – ha stilato un documento dai toni assai preoccupati denunciando «i rischi di voto di scambio, di attacco e manipolazione ma anche i rischi connessi a un modello elettorale in cui il cittadino non è grado di convincersi della veridicità del risultato delle elezioni e la conoscenza necessaria per i controlli è patrimonio solo di un ristretto gruppo di persone».

Un processo segreto per un voto manipolabile
Ma c’è di più. L’intero processo con il quale si è arrivati alle linee guida del voto on line è stato occultato, reso segreto. Una scelta voluta dai governi Conte. Anche questa è una peculiarità tutta italiana. In tutto il mondo i lavori dei comitati per stilare le linee guida per il voto elettronico sono stati pubblici. Le assise negli Stati Uniti venivano trasmesse in diretta e vedevano la partecipazione di esperti. Non solo: negli Usa e in Francia il processo prevedeva il coinvolgimento fondamentale degli apparati di sicurezza. In Italia nessun processo del genere è mai partito: il comitato che ha stilato le linee guida per il voto elettronico non aveva l’obbligo di produrre verbali ovvero di lasciare traccia dei propri lavori. L’associazione Copernicani provò a forzare questo incredibile “occultamento” tramite un accesso pubblico agli atti: ma la richiesta venne rifiutata, nessuno doveva conoscere il lavoro degli esperti.

Incredibile a dirsi, di voto elettronico nulla sa nemmeno il Copasir: eppure il primo rischio del voto on line è proprio quello di una possibile alterazione della volontà popolare da entità straniere o criminali. Se è vero, infatti, che il voto per posta degli italiani all’estero è già ora manipolabile, permettere di votare con il proprio smartphone aprirebbe la strada a scenari in cui entità straniere potrebbero sviluppare trojan appositi per infettare i dispositivi degli elettori e alterare le elezioni senza lasciare traccia. L’Agenzia per la cybersicurezza nazionale diretta da un’autorità in materia come Roberto Baldoni non ha avuto alcun ruolo nella vicenda: nata nell’estate scorsa, quando il decreto con le linee guida era stato già pubblicato, ha mosso i suoi primi passi a tempo di record. Sarà interessante se e come interverrà sulla questione. Il voto elettronico è facilmente manipolabile. Lo dice l’esperienza dei paesi che hanno condotto le sperimentazioni per poi abbandonarlo. Lo dice l’Enisa (Ente europeo per la sicurezza informatica) che indica il voto remoto come quello a maggior rischio di cybersecurity, soprattutto considerando i rischi di natura geopolitica.

Il caso Lombardia e la ditta venezuelana
Esemplare il caso Lombardia, dove nel 2017 si svolse un referendum consultivo utilizzando dei tablet. Fu un clamoroso fiasco del costo di decine di milioni di euro che svelò anche una serie di problemi tecnici: vennero omessi i più basilari protocolli di sicurezza su alcune cartelle contenenti dati sensibili. Tutto era alla mercé di chi avrebbe potuto manipolare i voti e catturare dati. A fornire il servizio era la venezuelana Smartmatic, una multinazionale finita al centro di svariate controversie per episodi di corruzione. La stessa Smartmatic di Diego Chiarion invitato alla Camera dei Deputati in un convegno organizzato dal M5S nel 2019. L’esperto chiamato dalla regione lombarda a definire processi e regole tecniche era Paolo De Carlo. A meno di omonimie è quello stesso De Carlo, già consulente dell’ex-ministro Paola Pisano, che ha fatto parte del comitato che in segreto ha stilato le linee guida per il voto online, unico informatico presente nell’organismo ministeriale.

Combattere l’astensionismo
Chi sostiene il voto online vede in questa possibilità uno strumento per combattere l’astensionismo e permettere a chi lavora e studio fuori sede o vive all’estero di esprimersi con molta più facilità. Gli studi smentiscono l’assunto: nei paesi in cui è stata avviata la sperimentazione il voto online non ha aumentato la partecipazione. E visti i rischi enormi la soluzione per i fuorisede sarebbe quella assai più semplice e meno dispendiosa di aprire i seggi presso le prefetture o le sedi diplomatiche. Lo segnala un white-paper del marzo scorso firmato da tre esperti di cybersicurezza: Fabio Pietrosanti, Stefano Quintarelli e Maurizio Napolitano. Basandosi sui dati geo-spaziali degli iscritti all’anagrafe dei residenti all’estero (AIRE), si scopre che con seggi dislocati in sole 43 città del mondo si potrebbe raggiungere più dell’84 % degli italiani all’estero, che avrebbero il seggio a meno di 20km da casa. In questo modo i rischi di inquinamento del voto per corrispondenza verrebbero drasticamente limitati, rivolgendosi al restante 16 %, senza dover incorrere nei rischi più grandi del voto elettronico.

Fratture e silenzi nel governo
Ciò che non è segreto pur rimanendo ancora sottotraccia è l’atteggiamento all’interno del Governo e delle forze politiche. Pochi giorni fa il ministro Federico D’Incà ha inaugurato una commissione che si occuperà di affrontare l’astensionismo. Tra le possibili soluzioni il ministro non ha fatto cenno al cavallo di battaglia del suo partito, il voto online. La frattura più importante è quindi individuabile all’interno del M5S che del voto elettronico è stato l’apripista facendo della questione una battaglia identitaria che ricorda da vicino quella sul taglio dei parlamentari. Anche allora, come oggi, la posizione del Pd è dirimente. Il partito di Letta, che risulta personalmente a favore del voto online, farà anche questa volta una inversione, baratterà come è avvenuto per il taglio dei parlamentari gli equilibri istituzionali e democratici in favore dell’alleanza con il Movimento anche con un occhio alle elezioni per il Quirinale?

E a proposito di rapporti con M5S a Milano il comune guidato da Beppe Sala ha scelto il nuovo responsabile per la digitalizzazione della macchina amministrativa. Anche qui ha vinto l’appartenenza, in questo caso al Movimento, di Layla Pavone, candidata M5S nel capoluogo lombardo, nei confronti di Paolo Coppola. Lui tra i massimi esperti del settore, lei pubblicitaria di grande successo ma a digiuno di digitalizzazione. La domanda allora è: possibile che il Primo ministro nulla sappia di una riforma che investe uno dei capisaldi della democrazia? Il silenzio in questo caso non è un’opzione. Il dibattito sul voto elettronico in Italia ricorda quello sui vaccini. Non tiene conto della realtà dei fatti e dei dati. Quello che appare certo è che a meno di un voto del Parlamento la strada è stata tracciata. La democrazia non è come un conto bancario online ma gli sponsor del voto elettronico lo sanno?