La nuova legge elettorale
Il Rosatellum prima lodato perché utile, oggi obbrobrio: basta riforme per opportunismo
Nella campagna elettorale tra le più brutte e stanche della storia recente, gli scontri sulle questioni istituzionali sono un esempio da manuale dell’atteggiamento delle forze politiche su questi temi: strumentalità e opportunismo. Sono solo ed esclusivamente le convenienze immediate che, in fin dei conti, condizionano le posizioni. Basti pensare alle leggi elettorali, che si sono succedute vorticosamente nel corso di questi anni, e che, anche quando la loro vita è stata breve, sono state fatte oggetto, spesso dagli stessi che le hanno approvate, di esaltazioni acritiche e di denigrazioni spietate.
Come accade ad esempio oggi per il “povero” Rosatellum, costruito a tavolino con un duplice, equilibristico, obiettivo politico (perseguito con grande determinazione fino alla proposizione di 8 voti di fiducia): rafforzare il successo delle coalizioni e scongiurare l’affermazione di chi (leggi M5s) di coalizioni non ne voleva sentir parlare. Obiettivo doppiamente fallito con le elezioni del 2018, sia perché il successo che si voleva evitare ci fu, e clamoroso, sia perché le coalizioni che dovevano esprimere un progetto di alleanza di governo, in realtà si sono sciolte come neve al sole con la formazione del Conte I. Fallito l’obiettivo, non ci si illuda che l’atteggiamento opportunistico sia cessato. Il fatto è che, al di là delle parole, un intervento sulla legge non lo si è voluto fare. Non solo perché cambiare non è facile, in quanto ogni cambiamento genera la resistenza di chi ritiene che ne sarebbe penalizzato, ma soprattutto perché lungo la legislatura sono cambiate le convenienze. La prospettiva del “campo largo” sterilizzava infatti il rischio di “terzi incomodi” e anzi diffondeva l’idea che l’effetto premiante della legge avrebbe offerto chances alla coalizione alternativa al centro-destra. Sono lacrime di coccodrillo, dunque, quelle dei tanti che rimproverano al Rosatellum di essere la peggiore legge elettorale.
Fin quando continueranno a farsi solo pensando alle convenienze contingenti saranno tutte per definizione “le peggiori”, una volta che quelle convenienze sono cambiate. E siccome il paesaggio politico, in Italia, cambia in continuazione, non c’è verso che le cose possano migliorare se non si cambia strada. La strada non dell’opportunismo di corto respiro ma quella che dovrebbe segnare ogni riforma. E cioè: qual è l’obiettivo che si vuole raggiungere? A cosa deve servire la legge elettorale? E qui si torna ai fondamentali. Si vuole che la legge elettorale serva a distribuire tra i partiti le carte perché poi siano loro a fare e disfare i governi in Parlamento o si vuole che servano anche a indirizzare la formazione delle maggioranze di governo? Ma l’opportunismo non consente ragionamenti lineari.
Perché siccome ai partiti piace molto avere le mani libere, si dileggia ogni soluzione maggioritaria (quella che dà più potere ai cittadini) con i triti e ritriti argomenti-alibi, tra cui, ad esempio che l’uninominale maggioritario puro (mai esistito in Italia) non ha funzionato, che le coalizioni sono camicie di forza, che la democrazia vera è quella proporzionalistica (come se il Regno Unito fosse una dittatura), che gli italiani non sono fatti per il maggioritario, e via scempieggiando. Il colmo dell’ipocrisia lo si raggiunge nel momento in cui si rimuove completamente una verità fondamentale: nessun sistema elettorale, nemmeno il più “maggioritario” può funzionare se l’architettura costituzionale non crea un contesto ad esso coerente. Tanto per capirci, se pure si introducesse il maggioritario puro, ma poi si consentisse che i singoli parlamentari o le forze politiche che alleate hanno vinto, possano fare ribaltoni e ribaltini senza pagare pegno, ogni tentativo sarebbe inutile.
La verità è che, contro l’opinione che viene comunemente sbandierata, l’instabilità politica piace alla politica (con le dovute eccezioni ovviamente), perché fare e disfare i governi è un potere prezioso. Così come difficilmente si rinunzia alla possibilità di giocarsi una chance di governare anche se si sono perse le elezioni. E anzi, da questo punto di vista, meglio ancora un sistema come quello proporzionale in cui le elezioni non le perde mai nessuno. Come accadeva nella Prima repubblica. Ma non illudiamoci, la tiritera sulla legge elettorale continuerà per tutta la campagna elettorale e anche dopo. Per non parlare dell’opportunismo sulla riforma costituzionale. Dove si può dire tutto e il contrario di tutto, tanto si sa che fare le riforme è praticamente impossibile. I programmi elettorali possono promettere meraviglie e chi non ha nulla da promettere si può sempre applicare a urlare che le proposte che vengono dagli altri, magari non in sé, ma proprio perché fatte dagli altri sono certamente una minaccia per la democrazia. Allarme sostanzialmente inutile (e anche fallimentare, come notava ieri Ferraresi su Il Domani), perché serve solo a polarizzare ulteriormente un conflitto che già si nutre di argomenti fondati sulla delegittimazione dell’avversario. Tanto più che lo scetticismo su qualsiasi possibilità di riforma che ormai dilaga nell’elettorato (ben alimentato dal dibattito politico) induce a iscrivere facilmente simili allarmismi nella rubrica: propaganda elettorale.
Nulla da fare, dunque? Nella fase della campagna, francamente, credo di no. Dopo si vedrà. Le variabili sono tante. Certo la storia recente ci dice che, quando le riforme sono brandite come strumento di campagna elettorale, continuano ad essere trattate come strumenti di lotta politica anche dopo. Altro che spirito costituente. Con la conseguenza che bicamerali, revisioni costituzionali, comitati di studio, finiscono per arenarsi sempre sul medesimo problema. Che il voto sulle riforme è una competizione elettorale combattuta con altri mezzi. La voto se la propone un alleato, la combatto se la propone un avversario. Vedi riforma Berlusconi 2006 e Renzi 2016. Da tempo ormai mi sono convinto che c’è una sola strada che si possa ancora tentare. Quella del referendum di indirizzo (come accadde per monarchia e repubblica). Scelgano i cittadini se vogliono presidenzialismo o parlamentarismo. Ci risparmieremmo anni di commissioni e procedure parlamentari destinate ancora una volta ad andare al macero e, nel caso, sarebbero i partiti ad assumersi la responsabilità di tradire la volontà popolare. Ma chi è disposto a rinunciare ai dividendi dell’opportunismo?
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