Dopo tanti litigi, discussioni, seminari e convegni dedicati ad analizzare le caratteristiche di una nuova possibile legge elettorale, non se ne fa più niente. Sembra proprio – così si dice negli ambienti romani più informati – che la normativa attuale non si cambi, a causa di un mancato accordo tra i partiti (e, specialmente, tra le loro correnti interne che, su questo argomento, sono accanitamente divise tra loro). E anche perché il Rosatellum in fondo conviene a entrambi i partiti maggiori, il Pd e FdI. A meno che i risultati delle prossime amministrative non portino a cambiamenti di idea e di prospettiva.

Come è noto, il tipo di legge elettorale in vigore condiziona fortemente le scelte e le strategie degli attori politici sul mercato dei consensi. E il mantenimento della legge Rosato (e quindi dell’esistenza dei collegi uninominali che determinano il 37% dei parlamentari) conferma l’importanza delle coalizioni che concorrono alla quota maggioritaria dei seggi in palio. Ciò ha implicazioni sia nel centrosinistra, sia nel centrodestra. Il primo vede riconfermare la necessità per Pd e M5s di restare alleati. Le differenze tra loro sono molte e si incrementano col passare del tempo. La opposta posizione nei riguardi dell’invio di armi all’Ucraina è solo l’ultimo episodio di un dissidio crescente di valori e di scelte politiche. Ma la necessità di rimanere insieme (specie al Sud, ove tuttora il M5S sembra avere un certo seguito in diversi collegi) prevale per necessità.

Sull’altro fronte, quello del centrodestra, la competizione, giunta ormai a termini estremi, tra Salvini e Meloni sta facendo letteralmente esplodere la coalizione. Il Capitano, per evitare il sorpasso, ha di recente avanzato l’idea di una sorta di fusione con Forza Italia: ma tutte le analisi hanno dimostrato che si tratterebbe di un’operazione fallimentare, almeno dal punto di vista elettorale. Una quota significativa di elettori forzisti non vuole infatti avere a che fare con la Lega e, in una misura minore, accade un fenomeno analogo tra i votanti per il Carroccio. Inoltre, le posizioni tra i due partiti sono in buona misura incompatibili: Berlusconi è atlantista e europeista, mentre Salvini non pare esserlo altrettanto. Anche grazie a questa situazione, il Cavaliere esercita di fatto una funzione cruciale (come dice il vecchio proverbio “tra i due litiganti il terzo gode”). Finché conserva un ruolo politico, egli detiene i voti determinanti per saldare la maggioranza. Malgrado la sua ormai scarsa forza elettorale, rimane dunque decisivo: proprio il potere coalizionale del Cavaliere gli dà un ruolo più importante di quello del suo valore numerico sul mercato elettorale.

Era stato questo per anni il potere dei liberali tedeschi di Genscher che facevano di fatto i governi che volevano, alleandosi alternativamente con la CDU o con la SPD. Un ruolo che però Berlusconi non può ricoprire in Italia, a causa anche del persistente ”antiberlusconismo” di una parte consistente della sinistra. Sicché Berlusconi può solo essere il king maker di un governo di centrodestra, dove il king è il primo ministro. O almeno può tentare di esserlo con serie chances.

In entrambe le coalizioni, l’atteggiamento verso la guerra in Ucraina resta, come si è detto, un fattore fortemente divisivo. Al riguardo, sia Conte che Salvini si sono dichiarati, sia pure con toni e argomenti talvolta diversi, contrari all’invio di armi in Ucraina e, talvolta, sembrano strizzare l’occhio alla Russia, contrastando così le posizioni del Governo di cui fanno parte. Naturalmente, questo atteggiamento deriva anche dalla necessità di incrementare i consensi elettorali (entrambi i partiti mostrano da diversi mesi un incessante calo nei sondaggi). Ciascuno dei due leader, sia pure in forme diverse, cerca infatti di raccogliere voti tra quella larghissima (e quindi assai interessante elettoralmente, considerando che si tratta di una percentuale oscillante tra il 45 e poco più del 50% a seconda dei sondaggi) quota di italiani che, nelle inchieste sull’opinione pubblica si è dichiarata contraria all’invio di armi e che sembra rappresentare dunque un appetitoso terreno di conquista lasciato scoperto dalle restanti forze politiche.

Al riguardo, Roberto Weber, autore del sondaggio Ixè su questo tema fa una osservazione molto interessante per comprendere la dimensione sociologica dei contrari all’invio delle armi sottolineando come “il favore rispetto all’invio delle armi è strettamente legato all’ampiezza del centro di residenza: nelle grandi città, fortemente urbanizzate, il favore è prevalente. Via via che i centri diminuiscono per portata e per intensità, il favore scende fino a rovesciarsi del tutto. È come se ci fosse un’Italia urbana, dove il veicolo delle informazioni evidentemente segue una canalizzazione diversa, che si trova a contrapporsi a un’Italia ‘minore’ di medi, piccoli e piccolissimi centri, dove il voto contrario all’invio delle armi va oltre il 55-60%”.

Conquistare questo elettorato dei piccoli centri concentrandosi sull’ostilità all’invio delle armi costituisce però, almeno in parte, un’operazione avventata, al di là dei giudizi sul contenuto politico e ideale della stessa. In realtà, infatti, buona parte di questi elettori elabora la propria scelta di voto per altri motivi e appartenenze e la questione ucraina non pare essere il fattore principale nell’orientare l’opzione elettorale. Si rischia, in altre parole, di creare fratture anche significative con gli alleati della propria coalizione, senza poi raccogliere un numero di consensi elettorali che giustifichi una scelta del genere e che risolva il problema del continuo calo di consensi.

Resta il fatto che, a causa di questa e di altre fratture – tra le quali riveste un ruolo importante anche l’atteggiamento verso l’Europa – entrambe le coalizioni appaiono fortemente divise al loro interno. Il bipolarismo “all’italiana” si trova di conseguenza in condizioni di grande fragilità, se non di insussistenza. Ma, finché rimane questa legge elettorale in vigore, resta un dato di fatto (e una necessità). Molti osservatori sottolineano anche l’esistenza di una terza componente del quadro politico: il cosiddetto “centro”. Al riguardo può essere utile considerare brevemente l’esperienza dei vari paesi europei.

In Germania è il compromesso fra partiti moderati (che dipende anche e molto dal sistema elettorale proporzionale) che ha creato spesso governi di forze tutto sommato centriste che oggi escludono le ali radicali (tutto sommato piuttosto deboli numericamente in Germania e concentrate nei Laender dell’est).

In Francia è stata la convergenza su un candidato come Macron che ha raccolto i voti della destra e della sinistra moderata. Questi hanno occupato il centro politico, infliggendo peraltro forti perdite ai partiti tradizionali di destra e di sinistra, ormai quasi scomparsi. Ma andando a rafforzare le ali estremiste che in Francia rappresentano pressappoco la metà del corpo elettorale, sicché il centro moderato resiste soprattutto grazie alla elezione a due turni del presidente e dell’Assemblée nationale.

In Italia, viceversa, lo scontro ventennale tra berlusconiani e antiberlusconiani ha ridotto il centro a cespugli che cercano di sopravvivere nella speranza di poter svolgere un qualche ruolo dopo le elezioni. Il lungo conflitto berlusconiani-antiberlusconiani ha spaccato il paese in due per quasi 20 anni. Anche a causa di ciò, finché c’è Berlusconi, il centro sinistra e il centro destra moderati faticheranno molto a mettersi insieme com’è accaduto in altri paesi.

Ciò accade nonostante che dal punto di vista strettamente elettorale potenziale (ma solo potenziale) si tratta oggi di un comparto piuttosto popolato. Interrogati (fonte Eumetra) sulla propria collocazione su un ipotetico asse destra-sinistra, ben il 17% degli elettori dichiara di posizionarsi sul centro tout court. A costoro va inoltre aggiunto, almeno in parte, quel 26% che si definisce di centrodestra o di centrosinistra moderati, manifestando, al tempo stesso, una posizione molto “centrale”. E, ancora, va considerata una quota, seppur piccola, di quel 32% che rifiuta di collocarsi in una qualsiasi “casella” di questa ripartizione politica. Si tratta dunque di molti voti “teorici”, che rendono questa area fortemente appetibile. Ma che conferma al tempo stesso, l’impossibilità numerica che essa diventi maggioranza in assenza di un leader capace di coagularla e di tenerla insieme.

Il centro costituisce di conseguenza nel nostro paese una realtà dai contorni (e dalla solidità) assai poco netti, se non totalmente confusi. Non solo: gli elettori, anche quelli che si definiscono di centro nei sondaggi, in molte delle consultazioni politiche passate hanno teso a dare la loro opzione alle forze più marcate politicamente e ideologicamente rispetto a quelle che si posizionano al centro, riducendo di conseguenza queste ultime ai minimi termini. Di qui la debolezza intrinseca di quest’area nella situazione attuale del nostro Paese. Con un bipolarismo claudicante e un centro confuso e difficilmente praticabile, ci avviamo a mesi di campagna elettorale e, tra circa un anno, alle elezioni politiche. Uno scenario che non lascia tranquilli. Anche perché, come ha osservato Stefano Folli, non c’è sempre un Draghi a portata di mano per tirarci fuori dai guai.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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