La breve campagna elettorale che porterà al rinnovo del Parlamento il 25 settembre deve far riflettere su tre aspetti che sono connessi fra di loro. Il primo sono i programmi che i partiti (o i loro leader) devono proporre agli elettori. Questi non dovrebbero ridursi a slogan o a bandierine e non basterà nemmeno prendere vaghe posizioni su questioni di politica internazionale come il rapporto con l’Ue e con gli Stati Uniti. Oggi nessuno (ad eccezione di Paragone) è ostile all’Unione Europea. Ma in Europa ci sono la Germania di Scholz e la Ungheria di Orban che hanno opinioni non solo diverse, ma talvolta opposte sul destino comune del vecchio continente e i partiti politici italiani dovrebbero prendere posizioni esplicite su questa questione.

Il tema del programma Draghi è anch’esso poco più di uno slogan, non solo perché un programma Draghi senza Draghi non può essere la stessa cosa – viste le competenze, oltre che il prestigio e la reputazione internazionale del presidente del consiglio che è stato messo in condizione di non poter più governare. Si tratta, dunque di entrare nel merito delle politiche che i candidati alla guida del paese propongono di perseguire, e questi devono esporle, evitando che si riducano a irresponsabilità fiscale e crescita del debito pubblico, il che ci metterebbe, come è già accaduto in passato, in contrasto con gli impegni sottoscritti con i partners europei. Tanto più che dell’aiuto economico e della loro fiducia nei confronti dell’Italia abbiamo assolutamente bisogno. I nostri politici dicono tutti che lavorano negli interessi degli italiani, ma queste dichiarazioni suonano spesso come retorica vuota, che non dice molto e finisce per allontanare gli elettori dalla politica, cioè dai partiti, senza il cui buon funzionamento e reputazione la democrazia rappresentativa non può essere governante.

Intorno ai programmi dovrebbero articolarsi gli schieramenti. La legge elettorale, di cui fra poco, spinge a coalizioni in competizione fra di loro. La fine del governo Draghi ha intanto destabilizzato il quadro politico. L’alleanza fra il Pd ed i 5S, che negli ultimi mesi sembrava poter rappresentare uno dei poli della competizione, si è spezzata prima di concretizzarsi. Il Movimento creato da Grillo e Casaleggio invece di diventare un partito vero si è trasformato in un pluriversum sfibrato da diaspore. Il suo presidente attuale cerca una collocazione politica che Giuseppe Conte sostiene vi sia, ma quale sia per ora nessun lo sa. I tre partiti che compongono quello che tradizionalmente era chiamato centrodestra hanno problemi legati alla leadership ma anche ai programmi. La crescita esponenziale del partito di Giorgia Meloni, salito dal 4% del 2018 a potenziali intenzioni di voto circa sei volte maggiori, destabilizza i rapporti fra i partner del cartello elettorale di cui per più di 20 anni Silvio Berlusconi è stato il leader indiscusso e più di recente Salvini il socio di maggioranza, mentre ora è decisamente quasi alla metà del sostegno popolare ottenuto in passato, sempre secondo i sondaggi sulle intenzioni di voto. Il problema della leadership è di difficile soluzione e verrà probabilmente sciolto solo dopo il 25 settembre, se questo cartello elettorale dovesse vincere. Intanto c’è da trovare accordi, con fatica sui collegi uninominali, e questa decisione non può essere posposta.

Dall’altra parte, il Pd, rotta al quanto pare l’alleanza con il dimezzato partito di Conte e dopo la scissione di Di Maio, deve cercare alleati nell’aria fra se stesso e la coalizione di centrodestra dove emerge il partito di Calenda, che spera poter accogliere i dissidenti della svolta salviniana di FI. Il tempo è poco e anche in questo caso l’accordo sui candidati nei collegi uninominali è tutt’altro che agevole. Venendo al terzo punto, la legge elettorale che aggregherà le preferenze degli elettori, si possono fare le osservazioni che seguono. Nei sistemi elettorali con formula proporzionale, ogni partito corre da solo cercando di espandere, se può, il numero dei suoi elettori. Il governo si formerà a partire da possibili alleanze dopo il voto. Eccezionalmente questo è accaduto anche con la legge Rosato nel 2018 quando questa non ha prodotto alcun vincitore e i partiti hanno provato alleanze diverse e a priori improbabili, che sono sopravvissute per un breve periodo di tempo. Questa volta, però, è molto probabile che una coalizione riesca ad ottenere una maggioranza sufficiente per provare a governare.

Ciò dipende dal fatto che circa un terzo dei seggi di un Parlamento, ridotto di un terzo dei rappresentanti, viene assegnato ai vincitori dei collegi uninominali, che sono più facili da conquistare da parte di una coalizione piuttosto che di un singolo partito, tenuto conto della grande frammentazione del nostro sistema dei partiti. Quello oggi stimato più popolare è FdI che non raggiunge un quarto del voto potenziale del corpo elettorale. Se andasse da solo rischierebbe di essere superato nei collegi uninominali dal Pd se questo si coalizzasse con il partito di Calenda. Esiste dunque un forte incentivo per i partiti del centrodestra a presentarsi insieme con candidati comuni nei collegi, nonostante i conflitti interni a questo cartello elettorale e le conseguenti difficoltà a trovare un accordo sui nomi e la provenienza partitica dei candidati.

Quanto appena detto ha come conseguenza che il Pd deve cercare a sua volta alleati e costruire un cartello alternativo se vuole provare a vincere le elezioni. La legge elettorale Rosato, al di là di complessi dettagli tecnici (per una piuttosto chiara presentazione della stessa si possono vedere le osservazioni di Stefano Ceccanti) crea un forte incentivo alla formazione di accordi pre-elettorali fra partiti, che non possono o non vogliono aspirare a più di una testimonianza e ad un diritto di tribuna, che la legge Rosato garantisce loro in qualche misura. Il partito di Conte, isolato e in declino, vale oggi meno di un terzo che nel 2018, può sperare in un diritto di tribuna. La competizione sarà fra i tre partiti della destra e il Pd con i suoi alleati.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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