Ecco il professor Roberto D’Alimonte, docente ordinario alla facoltà di Scienze politiche alla Luiss di Roma, fondatore del Centro studi elettorali della stessa università.

Grandi liti in corso per accaparrarsi i collegi uninominali. Perché la partita delle prossime elezioni sembra si debba giocare tutta lì?
Prendiamo come esempio il caso del Senato. In questa arena si assegnano 200 seggi di cui 122 proporzionali e 74 maggioritari più i 4 seggi della circoscrizione-estero. Con il 45% dei voti si prende più o meno il 45 % dei seggi proporzionali, cioè 55 seggi, ma con la stessa percentuale si può ottenere anche l’ 80 o 90 % dei seggi maggioritari e con questi arrivare alla maggioranza assoluta. La componente disproporzionale del sistema elettorale è nella parte maggioritaria. È per questo che la partita si gioca lì. E l’unità è la chiave per vincere.

È davvero così spianata la strada della vittoria elettorale per ia destra? Lei crede probabile che Fdi Lega e Forza Italia si presentino come alleanza elettorale e si dividano dopo il voto?
La media dei sondaggi delle ultime settimane dice che la destra unita ha circa il 45% delle intenzioni di voto. Mettendo insieme tutte le formazioni che grosso modo gravitano nel centro-sinistra la percentuale cui si arriva non è molto diversa. Il problema è che le liste sono troppe e troppo divise. In particolare pesa la divisione tra Pd e M5s. Senza il M5s il centro-sinistra vale più o meno il 35%. Con questo distacco tra i due poli non c’è partita nei collegi uninominali. Questa è la situazione fotografata dai sondaggi oggi ma ci sono due mesi da qui al voto. Tante cose possono succedere. Tanti fattori possono incidere: l’impatto della crisi di governo, l’astensionismo, l’effetto del probabile peggioramento della situazione economica, sociale e forse pandemica. Anche la campagna elettorale avrà influenza: i toni, i temi, la comunicazione, i candidati e soprattutto le alleanze. Su questo ultimo punto ho già detto che la destra parte in vantaggio. Ma se il centro-sinistra trovasse il modo di presentarsi unito e con una offerta attraente la partita si riaprirebbe. Pare che il Pd stia lavorando in questa direzione: mettere tutti insieme da Fratoianni a Calenda. La strategia è quella già utilizzata da Prodi. Una volta si chiamava “Ulivo” o “Unione”, adesso si chiama “campo aperto”’. Resta il nodo Calenda che ancora non si capisce cosa voglia fare. Senza Calenda difficilmente il centro-sinistra sarebbe competitivo. Come ho detto la destra oggi è in pole position. Può vincere, ma dopo la vittoria litigheranno sulla premiership e su molto altro. Nel frattempo la prospettiva di vincere li tiene uniti.

Pensa sia possibile un accordo basato sulle desistenze tra il Pd e altri partiti non alleati del Pd?
No. Il sistema elettorale non lo consente. Desistenza vorrebbe dire, per esempio, che Pd e Azione non si mettono insieme in coalizione e quindi presentano propri candidati nei collegi uninominali, ma in alcuni collegi Azione non presenta il proprio candidato e invita i suoi elettori a votare il candidato del Pd e viceversa in altri collegi. Questo si poteva fare con la vecchia legge Mattarella alla Camera. Penso a Rifondazione Comunista nel 1996. Non si può fare con l’attuale sistema elettorale.

C’è chi pensa a un accordo tecnico che possa consentire di allargare la coalizione di centro-sinistra anche al M5s.
Mi meraviglia che circolino idee di questo tipo che non hanno né capo né coda. L’accordo tecnico non sarebbe altro che una coalizione allargata dai 5Stelle a Calenda passando da Fratoianni e Di Maio. Una grande ammucchiata in cui elettori di Calenda si troverebbero a votare in certi collegi i candidati del M5s e viceversa. Non ha senso se non per chi non si vuole rassegnare all’idea che gli elettori possano votare per una coalizione che si candida a governare.

Quale immagina sarà la percentuale vera dell’astensione, al di là dei sondaggi? Quella parte di astensionisti che alla fine non si asterrà favorirà la destra o il centro-sinistra?
Nelle politiche del 2018 è stata il 27 %. È facile pronosticare che questa volta sarà più alta, probabilmente molto più alta. Gli studi sulla affluenza dicono che una affluenza più bassa tende ad avvantaggiare il centro-sinistra. Il suo elettorato è più interessato alla politica, più informato, meno sensibile ai richiami populisti e quindi più disponibile a recarsi alle urne anche in tempi di crisi. Oggi che l’appeal del populismo è in ribasso questo dovrebbe favorire i partiti del centro-sinistra. Ma non basterà se prevarranno le divisioni.

Quali effetti suppone produrrà sul risultato delle elezioni lo spostamento della gran massa di voti che nel Sud nel 2018 andarono ai Cinque stelle e che, presumibilmente, alle prossime elezioni saranno voti in uscita e non saranno spartiti tra partito di contiani e partito di Di Maio?
Nel 2018 il M5s nelle regioni del Sud ha preso in media il 43 % dei voti e la stragrande maggioranza dei seggi maggioritari. È certo che questa volta non sarà così ma in questo momento senza sondaggi specifici in questa area non abbiamo idea di quale sia la forza del Movimento. Due cose posso dire. La prima è che una bella fetta dei voti di allora andranno nella astensione. La seconda è che qui si potrebbe giocare la partita decisiva anche grazie alla crescita dell’astensionismo. Se il centro-sinistra riuscisse a mettere insieme una coalizione competitiva e se il M5s dovesse ottenere un risultato discreto in termini di voti la destra potrebbe non riuscire a vincere tutti i seggi maggioritari che le servono per arrivare alla maggioranza assoluta. Soprattutto al Senato.

Esiste la possibilità di una formazione centrista che si collochi tra Pd e Berlusconi è che tenga insieme tutti i vari cespugli centristi?
In teoria sì. In pratica no. L’area cui lei fa riferimento è troppo affollata e troppo eterogenea. Come ho detto in altre occasioni assomiglia più a un pollaio che a un polo. L’unica formazione di una qualche consistenza è Azione/+Europa che deve decidere che fare. Mi pare di capire che sia in corso un tentativo di creare liste che si alleino con il Pd. Si parla di una lista con Di Maio e il simbolo del Centro Democratico di Tabacci. Tenga conto che il problema di tutti questi gruppi è la soglia del 3%. Senza arrivare lì non si prendono seggi. Se però entri in una coalizione che arriva al 10% (da qui il ruolo decisivo del Pd) anche se non arrivi al 3% ma hai almeno l’1% i tuoi voti servono a far prendere seggi ai partiti che nella coalizione stanno sopra il 3%. E questo serve a negoziare qualche posto nei collegi uninominali.

Cambia davvero tutto se Renzi, Calenda e i fuoriusciti di Forza Italia si presentano col Pd? Ma se si presentano col Pd, il Pd non perde più voti di quanti ne guadagna?
Non cambia tutto, ma se riuscissero a fare qualcosa che non fosse solo una sommatoria di sigle, con un po’ di fortuna (vedi quello che ho detto su astensionismo e sul Sud), potrebbero puntare a vincere una percentuale sufficiente di collegi uninominali tale da impedire alla destra di arrivare alla maggioranza assoluta dei seggi. Quanto al Pd è plausibile l’ipotesi che possa prendere qualche voto in più presentandosi da solo ma in questo modo rinuncerebbe del tutto a competere non dico per vincere ma nemmeno per impedire alla destra di vincere. Non mi pare che sia questa la strada che il Pd intende prendere.

Quale combinazione di seggi ottenuti al maggioritario e al proporzionale permette di ottenere la maggioranza?
Non esiste un’unica combinazione. Per esempio, al Senato, con il 45% dei seggi proporzionali occorre poco più del 60% dei seggi maggioritari. Con il 40% dei seggi proporzionali ce ne vuole il 70%. Con queste combinazioni si arriva a maggioranze risicate. Va da sé che per avere maggioranze più solide bisogna vincere una quota maggiore di seggi proporzionali e/o maggioritari.

Può spiegarci per favore quali conseguenze concrete produce sul risultato delle elezioni la riduzione del numero dei parlamentari combinata al fatto che si voterà con lo stesso sistema elettorale del voto del 2018?
Al Senato in particolare saranno svantaggiate le formazioni minori perché i seggi proporzionali da assegnare in diverse regioni sono pochi e questo rende il sistema proporzionale un po’ meno proporzionale. Quindi al Senato l’incentivo ad aggregarsi è più forte e la frammentazione sarà minore. L’altro effetto concreto è con numeri più piccoli di deputati e senatori bastano poche defezioni soprattutto al Senato per mettere in crisi la maggioranza uscita dalle urne se non fosse una larga maggioranza.

Il sistema elettorale a suo avviso più adatto per l’Italia in questa fase quale sarebbe?
Io rimango dell’idea che in un Paese come il nostro caratterizzato da partiti deboli, elevata frammentazione, tanta disaffezione nei confronti della politica e dei suoi rappresentanti siano più adatti sistemi elettorali che spingano i partiti a coalizzarsi prima del voto e che favoriscano la creazione di maggioranze nelle urne. Quindi sistemi elettorali misti, prevalentemente maggioritari, e a doppio turno che mettano in condizione gli elettori di scegliere chi governa. Ma forse siamo arrivati al punto che non basta più affidarsi al sistema elettorale per cercare di dare un minimo di stabilità e di governabilità a questo paese. Dobbiamo interrogarci se non occorra modificare la forma di governo, come abbiamo fatto, con successo, per i comuni e le regioni. La Francia lo ha fatto nel 1958 e in un contesto partitico destrutturato molto simile al nostro è riuscita a stabilizzare il sistema. Noi siamo ancora alle prese con governi che durano in media meno di due anni. E qualcuno pensa che si possa risolvere il problema con il ritorno al proporzionale.