Caduto anche il mandato di cattura verso l'ex deputato di Forza Italia
Caso Matacena, volevano lo scalpo del ministro Scajola ma l’inchiesta è naufragata
Non c’è l’aggravante mafiosa, inoltre il passare del tempo ha fatto crollare ogni esigenza, quindi viene revocata l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Amedeo Matacena, l’ex deputato di Forza Italia da tempo residente a Dubai e condannato a tre anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Ma soprattutto ricercato per intestazione fittizia di beni nell’inchiesta della procura di Reggio Calabria dal nome “Breakfast”, ovvero colazione, secondo la fantasia che le ultime riforme sulla presunzione di innocenza non dovrebbero consentire più.
Ora non più ricercato, almeno per questa inchiesta, dopo la decisione della gip reggina Vincenza Bellini, che ha accolto l’istanza degli avvocati Marco Tullio Martini e Renato Vigna e ha anche disposto il dissequestro di alcuni beni. Del resto già nel maggio scorso la corte d’appello di Reggio Calabria aveva emesso un analogo provvedimento relativamente a una serie di proprietà intestate all’ex moglie di Matacena, Chiara Rizzo, con parole molto chiare. Visto che “la capacità reddituale ben poteva giustificare l’acquisto dell’immobile”, tutto ciò che era stato comprato a Miami e che era stato sequestrato nel 2017 era perfettamente legittimo.
Si sgretola piano piano la costruzione che era stata presentata come un grattacielo di stampo mafioso messo in piedi da una combriccola formata, oltre che da Matacena e dalla sua ex moglie, anche da un personaggio politico molto importante, l’ex ministro Claudio Scajola. Per capire la rilevanza che all’epoca, siamo nel maggio del 2014, la procura antimafia di Reggio Calabria aveva dato alla vicenda e ai personaggi protagonisti, basta sentire lo stesso Scajola, oggi Presidente della provincia e sindaco di Imperia. “Ero in albergo a Roma una mattina appena sveglio, quando hanno fatto irruzione nella mia camera sette agenti della Dia, che mi hanno prelevato e tenuto sequestrato per sei giorni, durante i quali non ho potuto vedere né mia moglie né gli avvocati. Neanche fossi un boss mafioso”. Che cosa era successo?
Che Scajola, amico di famiglia ed ex collega di Matacena, era stato intercettato mentre parlava al telefono con la moglie del deputato di Forza Italia, e quindi sospettato di volerne favorire la latitanza. Matacena nel frattempo era già a Dubai, senza aver atteso l’aiuto di nessuno, men che meno quello dell’ex ministro. Ma la cosa singolare è che tutta la costruzione del processo “Colazione” (forse si allude a quella che né Scajola né Chiara Rizzo hanno potuto consumare prima degli arresti?) è fondata su reati che, senza l’aggravante mafiosa, sono ben lungi dal prevedere la custodia cautelare in carcere. Intestazione fittizia di beni per Matacena, “procurata inosservanza della pena” per gli altri due. Il tutto condito in salsa ‘ndranghetista però, acquista ben altro sapore. Soprattutto mediatico. Occorre ricordare però che persino gli Emirati arabi, che non sono campioni di garantismo, si sono rivelati più attenti allo Stato di diritto dei magistrati italiani. Anche a Dubai infatti, come nel resto del mondo, il codice penale non prevede il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Infatti, benché nei mesi scorsi anche la ministra Cartabia, come già i suoi predecessori, si sia impegnata personalmente, come già aveva fatto nei confronti dei latitanti parigini di terrorismo, nel richiedere e sollecitare l’estradizione di Amedeo Matacena, questa non è stata mai concessa, perché non viene riconosciuto il reato. Neanche nel codice penale italiano del resto esiste il concorso esterno in associazione mafiosa. È solo uno strumento utile per applicare la custodia cautelare in carcere, per poter fare intercettazioni, per avere visibilità mediatica. È quel che è successo allora.
Quando, se era già un bel boccone quello di Matacena, che era stato deputato di Forza Italia, ma apparteneva anche a un’importante famiglia di imprenditori impegnati nel settori dei traghetti nello stretto di Reggio e Messina, le manette a uno come Claudio Scajola, ex ministro degli interni, era lo scalpo più succulento. Cinque anni tra indagini e processo, dopo 33 giorni a Regina Coeli e sei mesi tra domiciliari e obbligo di firma e residenza. E il pubblico ministero che porta in aula due “pentiti”, Cosimo Virgilio e Carmine Cedro, che collocano il ministro a S. Marino a guidare una banda di massoni ‘ndranghetisti in giorni in cui lui era una volta a Londra e l’altra negli Stati Uniti. Un processo che finisce, per lui e Chiara Rizzo, con le condanne a due anni di carcere per quel reato che non ha neanche la gravità del favoreggiamento e che è ormai prescritto, ma che il prossimo 27 settembre vedrà l’inizio dell’appello. Matacena intanto aspetta la decisione della Corte Europea, cui ha fatto ricorso. E Scajola, eletto a furor di popolo sindaco di Imperia quattro anni fa con una lista civica che si è presentata contro centrosinistra ma anche contro centrodestra, commenta lapidario: “Il mio vero processo è quello che ha celebrato la mia città quando mi ha eletto”.
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