Lui dice che «questo libro non è né un trattato sul processo penale né un manuale sul mestiere dell’avvocato…». Ma non è così, perché La giustizia degli uomini (Mimesis Edizioni, 18 euro) di Davide Steccanella dovrebbe proprio essere non solo letto, ma anche studiato. Dagli studenti di giurisprudenza, prima di altri. Sia che sognino di diventare dei Carnelutti, ma anche se si accontentassero del più modesto ruolo di un Di Pietro, visto che in questo febbraio 2022 siamo in clima di celebrazioni per il trentennale di un arresto, evento per il quale non si dovrebbe mai festeggiare. E questo dovrebbe essere il primo insegnamento, per gli studenti. Il secondo potrebbe riguardare il coraggio, quello di assistere “gli indifendibili”, come Cesare Battisti, il terrorista, e Renato Vallanzasca l’incontrollabile delinquente abituale.

Lui l’ha fatto, perché Davide Steccanella è un avvocato un po’ particolare. Prima di tutto perché non ritiene la propria professione una missione religiosa, e anche perché è diventato penalista un po’ per caso, benché figlio di avvocato. E si sa che le toghe, quelle giuste e quelle sbagliate, generano altre toghe. Ma da lui abbiamo queste due garanzie di un rapporto “laico” con l’amministrazione della giustizia. Infatti il nostro autore è entrato per la prima volta nel sacrario del Palazzo di giustizia di Milano un po’ dalla porta di servizio, a ventiquattro anni, mentre era militare nel corpo dei carabinieri, cui all’epoca era affidato il servizio traduzioni dei detenuti dal carcere di San Vittore al tribunale. Così, negli anni in cui, pur avendo in tasca una laurea in giurisprudenza (quella che ti apre tutte le porte, come si diceva un tempo), non si è ancora ben deciso che cosa fare “da grandi”, il giovane Steccanella si ritrovò a guardare il processo con occhio neutro. Con stupore guarda il trattamento riservato ai detenuti. E li vede così: «Animali trascinati in catene da una gabbia all’altra nell’indifferenza generale, questo erano».

E le toghe? «…provavo un malcelato fastidio nel vedere quegli avvocati parlarsi addosso per ore davanti a tre signori, altrettanto agghindati che – seduti su una sorta di scranno reale con aria annoiata- il più delle volte neanche ascoltavano. Alla fine il signore seduto al centro – vecchissimo, ai miei occhi- leggeva il verdetto con tono solenne e dizione incomprensibile». Attenzione a vedere nelle impressioni di questo ragazzo qualcosa di superficiale, perché quello lì con la divisa da carabiniere aveva capito qualcosa di profondo, che il processo è violenza, e che tra le lungaggini e la noia delle toghe, quelle giuste e quelle sbagliate, c’è un soggetto-vittima, un animale in catene. In un canile, aggiungerà anni dopo un detenuto tragicamente eccellente, Gabriele Cagliari.

Davide Steccanella, avvocato per caso, quel palazzo lo frequenta ancora da trentacinque anni. E mette la sua esperienza, il suo vissuto, a disposizione di chi voglia conoscere senza gli occhi dell’ideologia o dello schieramento di campo. Ricorda senza piaggeria due grandi avvocati milanesi, Corso Bovio e Ludovico Isolabella, suo primo e unico maestro. Dipinge come pubblici ministeri-tipo, due ancora famosi ancorché da poco pensionati, Piercamillo Davigo e Ilda Boccassini. Il primo, la cui indole era «ontologicamente accusatoria, cosa che lo portava a ritenere che non esistessero imputati innocenti, ma solo imputati che erano riusciti a farla franca». Uno che pareva appartenere a quella “cultura becera” che considerava gli avvocati come azzeccagarbugli, «furbastri dediti… a lucrare sul crimine impunito».

La seconda colpiva, racconta l’Autore, per «… quella devozione ai limiti del maniacale allo Stato». «La sua missione era catturare i mafiosi, cosa che fece sebbene non tutti lo fossero davvero, prendendosi qualche ingiusto anno di galera». Descrizioni perfette dei due, più efficaci di tanti commenti. Con una considerazione generale, alla fine del capitolo. «Una cosa sono i pubblici ministeri “militanti”, durissimi e in buona fede, sebbene sorretti da certezze tanto granitiche da diventare sordi a qualunque istanza della difesa; altra cosa sono quelli che semplicemente giocano sporco». Ecco. Ma fuori dagli schemi dei personaggi famosi, dei militanti e di coloro che giocano sporco, per capire come funzionava (e funziona) spesso nella quotidianità il processo, ricordiamo un episodio che riguardò un riconoscibile (pur se non citato con nome e cognome) ex assessore regionale democristiano della Regione Lombardia.

Arrestato due volte, la seconda costretto al digiuno per sollevare un po’ di attenzione sul suo caso. Precisiamo che fu poi assolto in ambedue i processi. Ma nel secondo, ricorda Steccanella che fu suo difensore con Isolabella, la pm aveva chiesto la condanna a cinque anni di carcere. E avendole fatto notare il difensore che gli parevano un po’ tanti per un semplice tentativo, la “sventurata” ammise di non essersene accorta e modificò la richiesta a un anno e quattro mesi. Così, con indifferenza, per lei gli anni erano solo numeri, non furto di vita di persone. La carriera politica dell’assessore era finita ( da tempo fa l’avvocato), non quella della pm, che divenne giudice di cassazione. Con quale imparzialità possiamo immaginare.

Ma erano poche, in quegli anni di Tangentopoli, le occasioni per il giovane avvocato, oggi sessantenne, di andare a difendere un innocente. La gran parte del tempo gli avvocati lo trascorrevano facendo gli “accompagnatori” di indagati disposti a tutto, alla delazione, al tradimento, pur di non andare in carcere. Il che non era proprio un bel mestiere, per chi doveva difendere. Facile, soprattutto. Sicuramente l’avvocato Steccanella ha tratto maggior soddisfazione, pur se i risultati non gli hanno dato il merito che gli sarebbe dovuto, nell’assistere “gli indifendibili”, Cesare Battisti e Renato Vallanzasca.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.