La dolce Vitti (come il bel titolo di una esposizione romana a lei dedicata nel 2018, giocata sul filo della memoria e della suggestione cinefila) è morta ieri, 90enne, dopo lunghissima malattia degenerativa. Che già da vent’anni aveva imperdonabilmente e irrimediabilmente tenuto distante la grande attrice romana, dal pubblico che tanto le voleva bene. E dai registi con cui, in maniera osmotica, si era scambiata talento e suggestioni artistiche in una carriera che ha segnato la seconda metà del novecento cinematografico, non solo italiano.

Per il suo forzato chiamarsi fuori, si può dire che Michelangelo Antonioni (scomparso nel 2007) e Alberto Sordi (nel 2003), due dei suoi migliori partner, in qualche modo le siano sopravvissuti. Il tempo perduto a questo mondo però – vale per tutti i grandissimi – non può dirsi perso del tutto. Se ci si immerge nella imponente filmografia, ricca di preziosissime gemme, che l’ha resa intramontabile. E che continuerà a mantenerla tale soltanto se, al di là degli ovvi proclami, le istituzioni si impegneranno a rendere partecipi le nuove generazioni di chi e quanto sia stata Maria Luisa Ceciarelli, in arte Monica Vitti. Perché la memoria, che lei aveva del tutto perduto a causa della malattia, non giochi altri scherzi, diversissimi ma comunque terribili.

Di famiglia borghese, nata nella capitale il tre novembre 1931, inizia la carriera come tanti. Si diploma attrice all’Accademia d’Arte Drammatica nel 1953. E come per tanti, i suoi inizi non sono un granché. Il debutto al cinema, negli anni di transizione (anche filmica) tra il dopoguerra e il boom, avviene in Ridere, ridere, ridere di Edoardo Anton. Le sarebbe servito al suo fianco un regista dal cognome simile, ma dalla poetica ben diversa, per farsi conoscere. Antonioni però, arrivò secondo a scoprirla. Il primato tocca a Sergio Tofano, che la diresse più volte in palcoscenico (da Machiavelli a Brecht) e a cui si deve l’idea di un cambio di nome, che le fece bene. Rispetto a Maria Luisa Ceciarelli, chiamarsi Monica Vitti suona più facile e più sobrio. E all’insegna della sobrietà emotiva, e con una vena esistenziale di clamoroso spessore, è il sodalizio forte con l’autorialità antonioniana. I cui proclami, le si leggevano sul viso sensuale e spigoloso, si interpretavano negli occhi malinconici e ascoltavano dalla voce roca, inconfondibile.

E allora, all’inizio degli anni Sessanta, bene arrivata Monica nel cinema nuovo del maestro ferrarese. Per Antonioni è protagonista della tetralogia dell’incomunicabilità. Il triangolo da brividi e tanti premi (insieme fanno due riconoscimenti a Cannes e l’Orso d’oro a Berlino): L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962). Cui si aggiunge, con un po’ di ritardo nel 1964, Deserto rosso. È qui che la Vitti pronuncia la battuta cult, scelta dallo sceneggiatore Tonino Guerra che la scova in una poesia di Amelia Roselli: «Mi fanno male i capelli». E dalle immagini d’archivio in bianco e nero si ricorda lei, bellissima in prima fila alla Mostra di Venezia, applaudire e sorridere al Leone d’oro che Antonioni vince per Deserto rosso. Poi cambia di umore ed è molto emozionata, quando il regista all’epoca suo compagno, la ringrazia con affetto: «In questa mia battaglia ho avuto vicino una persona che ha collaborato con me con molto coraggio e valore. Ringrazio pubblicamente Monica Vitti».

I due si ritroveranno solo un’altra volta, e parecchio tempo dopo. Nel 1980 per Il mistero di Oberwald. Anche perché Vitti, nel frattempo, scopre quella cosa chiamata commedia, che ad Antonioni davvero non apparteneva. Ma a lei sì.
E allora eccola tornare ai personaggi brillanti, divertenti e un poco scollacciati, che aveva sperimentato agli inizi. Stavolta però, li affronta giocando sul centrale della commedia all’italiana. Di cui dalla seconda metà dei Sessanta e per tutto il decennio successivo, diventa regina incontrastata. Si prende la scena, gli applausi e gli incassi al botteghino. È Assunta, la siciliana disonorata di La ragazza con la pistola di Mario Monicelli (1968); la fioraia di Dramma della gelosia – Tutti i particolari in cronaca di Ettore Scola (1970) in cui è la più brava in un terzetto di giganti (oltre a lei, Giancarlo Giannini e Marcello Mastroianni); la capocomica di Polvere di stelle (1973), avanspettacolo sotto le bombe nel miglior film di Sordi autore.

Come Teresa la ladra (1973) è la migliore prova da regista del grande autore della fotografia Carlo Di Palma, che fu suo compagno. Tutto e tutti al servizio della Vitti. Bravissima e mattatrice, ma mai bulimica. Adatta al lavoro in coppia. Come succede con Ugo Tognazzi, in L’anatra all’arancia di Luciano Salce (1975). Negli anni Ottanta, il cinema italiano fu meno generoso. Con lei e di conseguenza con gli spettatori. Ma è bene ricordare Flirt (1983), diretto da Roberto Russo, suo affettuoso marito nel lungo e triste finale di partita. Per questo film, alla Vitti giunge un tardivo Orso d’argento come migliore attrice, alla Berlinale. Nel 1995 invece, alla sua carriera già in cassaforte viene conferito il prestigioso Leone d’Oro. Su script di Russo (ma negli anni ha certo recitato sceneggiature meglio riuscite, scritte da Age & Scarpelli, Guerra e Scola), Vitti esordisce anche alla regia. Scandalo segreto (1990) è la sua unica prova dietro e la sua ultima davanti alla macchina da presa.

Prima del terribile silenzio, capitato con l’arrivo del nuovo secolo, ci sono stati impegni simpatici, all’insegna della leggerezza. La conduzione di Domenica In su Rai1, con Mara Venier. Il doppiaggio italiano del cane snob di Senti chi parla adesso, a scambiare battute di fuoco con il randagio che ha la voce di Renato Pozzetto. Lo scorso novembre, al compimento dei suoi novant’anni, in tanti le hanno reso omaggio. Come il Museo Nazionale del Cinema di Torino. «È stato per noi un tributo importante e necessario – dice il direttore Domenico De Gaetano – a una delle più grandi attrici del cinema internazionale del Novecento. Una diva inconsueta e anticonformista, grande interprete di film che hanno raccontato oltre quarant’anni di società e storia italiana. Vitti è radicata nel cuore delle persone». In mostra c’erano immagini scattate da Angelo Frontoni, il fotografo delle dive. Monica Vitti diva lo è stata. Eppure sempre molto umana. Protagonista di una vita favolosa e tragica. Comunque dolcissima.