No, non ci siamo ancora. Si fa fatica – ancora troppa fatica – ad aprire una stagione politicamente nuova che dia risposta allo scarto, sempre più evidente, tra i fatti che sono intervenuti negli ultimi anni nella realtà istituzionale del nostro Paese (dalle crisi e dalle trasformazioni economiche subite dai contraccolpi della globalizzazione all’esplosione della pandemia Covid) e l’incerta, problematica, farraginosa e spesso palesemente inadeguata risposta che il nostro ordinamento costituzionale ha dato a questi eventi.

Eppure, nonostante si abbia sperimentato appunto le forti difficoltà del nostro ordinamento a reagire adeguatamente a quei cambiamenti – che impongono riforme importanti oggi anche allo stesso assetto costituzionale europeo, come ha spiegato da par suo l’altro ieri Mario Draghi ad un’Europa in cerca di identità, di visione e di prospettive – lo stato dell’arte nel dibattito politico in Parlamento e nell’opinione pubblica che abbiamo di fronte, a guardar bene, è francamente decisamente deludente.

Insomma, sembra ancora non bastare alle forze politiche vedere le intollerabili degenerazioni del parlamentarismo che abbiamo sotto gli occhi – dallo stravolgimento del sistema delle fonti del diritto, alla friabilità di un ormai inspiegabile bicameralismo divenuto per tutti un monocameralismo “alternato”, ad un rapporto tra Stato e Regioni nella realtà ben diverso da quanto scritto nel titolo V della Costituzione – per spingere a trovare in modo obiettivo, ineludibile, condiviso tra tutti gli attori politici del Paese una risposta comune, solida, nuova. Vediamo allora lo stato dell’arte, tenuto conto di un fatto oggettivo: che è possibile fare le riforme costituzionali, così come è avvenuto nella scorsa legislatura, quando sono intervenute ben quattro riforme costituzionali, seppur molto puntuali.

Oggi vi sono due principali riforme in discussione: quella relativa alla riforma della forma di governo parlamentare, con l’introduzione dell’elezione diretta del presidente del consiglio dei ministri e quella relativa all’attuazione legislativa dell’art. 116, comma 3, della Costituzione riguardo all’autonomia differenziata.

Riguardo all’elezione diretta del presidente del consiglio si può dire che la Commissione affari costituzionali del Senato ha preso un passo più spedito di quanto si sarebbe immaginato inizialmente, approvando già i primi quattro articoli del testo presentato, di fronte al fatto che il posizionamento tra le forze politiche sta palesemente mostrando la non volontà reciproca di confrontarsi fino in fondo alla ricerca di un testo condiviso. Dunque a colpi di maggioranza il testo procede. Infatti, al di là dei punti di merito, che hanno trovato qualche aggiustamento anche importante – come ad esempio una definizione più salda dell’effetto conseguente alla bocciatura di un voto di fiducia in ragione dell’apposizione di una questione di fiducia da parte del Governo – è evidente al momento, tanto dal lato della maggioranza quanto da lato delle opposizioni, soprattutto l’uso strumentale di questa riforma costituzionale a fini elettorali in vista delle elezioni europee.

Così è difficile immaginare che si possa addivenire prima dell’estate ad una qualche soluzione condivisa che abbia, anche sotto il profilo tecnico, soluzioni più coerenti con il panorama delle forme di governo democratiche note. E che si dia una luce chiara sul tipo di legislazione elettorale che si vorrebbe adottare per l’elezione diretta. Vedremo l’esito delle europee cosa consentirà di dire in tema.

Per quanto riguarda invece l’autonomia differenziata, dopo l’esperienza della Commissione presieduta dal Prof. Cassese, che ha affrontato i modi e le forme per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni, preliminari per l’autonomia differenziata, la situazione in realtà è andata un poco in stallo, nel senso che sono apparse ben chiare, alla luce di quel Rapporto, i problemi economici prima che quelli politici che un lavoro del genere comporta per il nostro ordinamento. Eppure lì si potrebbe già intanto sottolineare il fatto che non vi dovrebbe essere nessuna preclusione aprioristica se, guardando al tema con uno sguardo prospettico, quella potenzialità che la Costituzione offre, ossia l’autonomia differenziata, potrebbe avere una migliore funzionalità se applicata in presenza di una riforma del bicameralismo che dia a questo Paese un Senato delle regioni senza il quale, evidentemente, i conflitti si moltiplicherebbero.

D’altronde è la stessa Costituzione che prevede la possibilità di un’autonomia differenziata: dunque è difficile immaginare che sia possibile “lasciare in bianco” quel compito. Tuttavia si potrebbero evitare tutti rischi di una frammentazione eccessiva nell’erogazione in concreto dei diritti fondamentali per tutti i cittadini sul territorio, a partire dalla tutela della salute e dai livelli essenziali delle prestazioni (i c.d. LEP), se appunto si evitasse di lasciare alla contrattazione al solo rapporto Governo-Regioni, producendo un effetto molto pericoloso, con le Regioni “amiche” del Governo che avrebbero di più, quelle invece di colore opposto che potrebbero essere penalizzate. Invece sarebbe molto più semplice costruire forme di responsabilizzazione regionale a livello nazionale tramite la modifica del bicameralismo e la previsione appunto di un Senato delle autonomie. Fatto sì è che, in entrambi i casi, tanto sulla riforma della forma di governo quanto sull’autonomia differenziata, prima delle elezioni europee, purtroppo sembra assai difficile riuscire a tenere il tema delle istituzioni al riparo dal naturale conflitto politico sui temi cosiddetti normali da programma di governo.

Ma, passato il 9 giugno, è troppo sperare che si riesca a superare questo impasse? Servono infatti, come detto, riforme condivise. Perché bisogna mettere da parte l’idea – praticata da tutti gli schieramenti – di riforme costituzionali approvate da una maggioranza politica. Non soltanto perché è un danno, tanto per chi lo fa quanto per chi si chiama fuori, ma anche perché si tratta di un “gioco del cerino” sulle spalle del Paese e delle sue istituzioni che corrode pericolosamente il valore del testo costituzionale. Ci vuole insomma quel coraggio politico che finora è mancato per avanzare proposte ragionevoli, affrontando – nel caso – quel sentimento popolare potenzialmente contrario a ciò che si dirà, a partire da quello dei propri elettori, in quanto magari opposto a quanto detto in campagna elettorale.

Eppure – ormai lo dovremmo ben sapere – se si dialoga davvero, conta il risultato finale, non il tifo sugli spalti. Perché si esercita appieno la propria funzione politica, facendo del proprio agire l’arte di risolvere i problemi, ben consapevoli peraltro pure dei rischi del tempo storico che stiamo vivendo. Nell’aprile 1999 Giorgio Napolitano sottolineava a Norberto Bobbio il suo faticoso impegno per indurre i più attaccati al corto respiro della politica a guardare «alla sostanza dei problemi politici e istituzionali di cui ancora si tenta, senza riuscirvi, di venire a capo nel nostro paese», superando con l’ottimismo della volontà – diciamola così, citando Gramsci – quel “pessimismo della ragione” (filologicamente, dell’intelligenza) nel quale troppo spesso cade vittima la politica italiana. Ricominciare da quel monito a me pare, ancora, la strada migliore. Speriamo, a partire dal 9 giugno, sia possibile.