Il crollo della fiducia, del patto non scritto fra nazioni e popoli è lo spettro che aleggia sullo scenario geopolitico planetario, perché venendo meno la fiducia reciproca, non può che avanzare la crisi economica, la divisione, il sospetto, la tentazione predatoria e dell’aggressione e infine la guerra: il verticale crollo della fiducia reciproca nel mondo sarà il filo conduttore della conferenza di Davos che si svolgerà fra il 15 e il 20 di questo mese in Svizzera. Se oggi il problema che il mondo si trova brutalmente di fronte, dopo anni di crepe e di segnali ignorati,  è il rischio della crisi nella fiducia reciproca, l’obiettivo di Davos è “Rebuilding Trust”, ricostruire la fiducia: un titolo sotto cui si svolgeranno più di duecento sessioni di lavoro, tutte visibili in streaming da ogni luogo del mondo.

Davos, gli scenari tra Cina, Russia e India

Una preoccupazione speciale e incalzante anima quest’anno lo spirito di Davos, in genere molto tecnico e con i piedi per terra. Certamente anche questa edizione sarà ben radicata nella realtà ma non potrà evitare scenari che dipendono dallo scontro geopolitico e in particolare dall’atteggiamento della Cina dilaniata fra due politiche antitetiche: la riconquista del mercato e dell’industria americana sul suolo cinese dopo l’incontro con Biden a San Francisco e la tentazione di seguire la Russia se non nella guerra, almeno nella fornitura massiccia di tecnologia e mezzi di trasporto. Ci sarà da intrepretare l’oscillazione dell’India, il vero Paese emergente del mondo, che non si sa più se fa parte dei Brics o se è tornata a guardare all’Occidente americano.

Davos, il barato esistenziale e il boom dell’industria militare

Mai come quest’anno il mondo si trova di fronte a un baratro esistenziale che per convenzione è etichettato con una parola quasi innocua: complessità. Ma che in realtà è un indicatore che prospetta guerre sia convenzionali che nucleari, sconvolgimenti e alleanze un tempo impensabili come quella fra l’Arabia Saudita e Israele, interrotta da una guerra multipla scatenata dall’Iran che si presenta sulla scena mondiale come un paese demoniaco ma stabile e aggressivo, capace di tenere insieme Russia e Cina sia sul piano militare che economico. Avranno davvero la capacità e la forza gli oltre duemila partecipanti a Davos di prendere di petto questioni come il boom dell’industria militare che paradossalmente ha risollevato l’economia russa proprio grazie alla sua guerra d’aggressione che però stimola le imprese e alza i salari? Questo è ciò cui ha alluso con parole più contenute e diplomatiche il presidente del World Economic Forum, Wef Borge Brende, svolgendo il filo rosso che unirà tutti gli incontri di Davos: il crollo della reciprocità, la sfida alle regole del XX secolo, la difficoltà divaricante per un linguaggio comune che sia anche coerente perché se perdesse coerenza si presenterebbe come una maionese semanticamente impazzita.

In genere quel che accade in questo piccolo centro svizzero in cui il mondo di tutti i poteri si riunisce annualmente per rimettere insieme i pezzi dello specchio infranto, porta ai risultati vaghi ed enigmatici anche se autorevoli perché è quasi impossibile che i principali protagonisti varchino i limiti del linguaggio cifrato per gli addetti ai lavori. Ma quest’anno le due guerre principali e quelle collegate, e cioè l’invasione russa in Ucraina e la violenta reazione israeliana all’aggressione barbarica del 7 ottobre di Hamas, avranno tanto spazio quanto le questioni economiche, per le quali l’Italia sarà rappresentata dal ministro Giorgetti. Il Forum economico di Davos, associazione senza fini di lucro ma col fine di promuovere sia la ricchezza delle nazioni che la stabilità politica del mondo produttivo e della pace universale, si svolge nella cittadina di Cologny, alle porte di Ginevra, inaugurata dall’economista Klaus Schwab sulla scia di una grande corrente utopica ottocentesca e poi post bellica, secondo cui i mali del mondo sono per lo più mali economici e dunque l’unica cosa sensata che si possa fare per risolverli sia radunare nello stesso luogo ad alta concentrazione intellettuale capi di Stati e di governo, scienziati e pensatori, tecnici ed industriali, utopisti e CEO delle più grandi imprese.

Trump “convitato di pietra”: i timori per il ritorno alla Casa Bianca

Ma in questa edizione il “convitato di pietra” la cui ombra attenuerà le luci di Davos sarà Donald Trump, il candidato più forte per vincere le elezioni e tornare alla Casa Bianca come Presidente. Di cui l’Europa, a cominciare dalla Francia e dalla Germania, ha un sacro terrore perché il suo ritorno potrebbe distruggere la Nato, capovolgere la politica estera americana e lasciare campo libero a Vladimir Putin, suo aperto sostenitore in attesa di vibrare la mazzata finale alla spossata ucraina, cosa che farà non appena saprà che Trump ha dato luce verde. In Francia ieri si discuteva furiosamente sull’ultimo sketch di Trump che ha raccontato nello Iowa di aver ridotto al silenzio “un cero Emmanuel, come si chiama, ma sì: Macron” il quale avrebbe voluto ai suoi tempi tassare le auto americane del 100%. Tutto inventato, ma a Parigi si preparano le barricate, come anche a Londra dove gli stessi conservatori temono la riduzione del Regno Unito ad una contea, neanche Stato, americano.

D’altra parte, l’Europa nel suo complesso e sotto leadership inglese si è silenziosamente impegnata a sostituire gli Stati Uniti nel difendere l’Ucraina con i soldi del contribuente europeo. Secondo Borge Brende, l’abisso che minaccia di spalancarsi sotto la stabilità del mondo si chiama sfiducia, essendo la fiducia quella virtù che tiene insieme monete ed alleanze, prospettive economiche e di solidità. Come tentare di rimediare a questa svalutazione monetaria della fiducia di cui le imprese hanno bisogno per vivere e produrre la ricchezza delle nazioni e delle genti? Mancano quattro giorni all’apertura dei lavori e se qualcosa potesse succedere, potrebbe succedere a Davos, a un palmo dalla sede ginevrina delle Nazioni Unite, in posizione strategica e collaudata.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.