Conte lo scaltro voleva fregare Letta, ma il leader dem è stato salvato da Renzi

Tra Conte e Di Maio volano gli stracci. A destra si raccolgono solo macerie. Nel Pd si canta invece vittoria e addirittura si celebra il trionfo del campo largo. Fa male però Letta a festeggiare sui social, dopo averlo fatto in aula. Non può considerare un successo la resa alla condizione di emergenza. Con il suo immobilismo ha perso il controllo degli eventi politici fondamentali. Ha lasciato correre le cose sino a lambire una nuova catastrofe di sistema. Con gli stessi errori di gestione delle pratiche insidiose per l’elezione del capo dello Stato dieci anni fa finì la carriera di Bersani, inerme dinanzi alle spinte centrifughe del sistema dei partiti. Non si illuda adesso Letta che con il ritorno di Mattarella, acclamato dai deputati nel segno della dolce illusione di una stabilità garantita, inizi automaticamente la sua stagione di compassato regista del caos calmo.

Servirebbe un briciolo di strategia per riempire con una idea di sistema lo spazio lasciato dal definitivo crollo del maldestro bi-populismo Conte-Salvini che stava per effettuare il colpo di mano. Il Pd non ha affatto vinto la contesa con una strategia consapevole e anzi ha rischiato di essere un passivo partner dell’operazione Belloni. Lo statico Letta quasi per caso ha schivato gli scogli solo grazie ad una manina toscana che ha di nuovo suonato il campanello, stavolta d’allarme, svegliandolo dal torpore mentre per la sua condotta ingenua o subalterna verso i due campioni gialloverdi stava precipitando nel burrone del ridicolo. “Speriamo che sia femmina”, esultava così a tutta pagina il Fatto di Travaglio e Gad Lerner che brindava dinanzi alla ritrovata sintonia Conte-Letta (e Meloni) per affidare nell’età del pubblico la malandata repubblica al capo dei servizi segreti. Il punto di riferimento dei progressisti, nel corso delle trattative, ha sempre cercato di raggirare Letta lanciando sguardi complici verso Salvini. Ha tentato per questo di soccorrerlo quando il capitano strapazzava a terra per la botta ricevuta dai 70 franchi tiratori.

Non è per l’ingenuità nei negoziati condotti da più scafati politici di professione che l’avvocato del popolo si aggrappava a Salvini. Conte non è affatto sprovveduto nelle cose che più richiedono una astuzia di natura privata, sa districarsi eccome nelle mosse che vanno escogitate con una qualche disinvoltura per raggirare, infilarsi. Se ha flirtato con il capitano è per cedere al richiamo di una sintonia più profonda che grazie al riflesso andropoviano contemplava il voto anticipato. Con il suo affondo finito male dinanzi alla resistenza dell’assemblea Conte ha dato non trascurabili lezioni di scaltrezza all’impacciato Letta. Senza lo smalto renziano nel rintuzzare la deriva istituzionale di una presidenza data in concessione alla donna con libero accesso alle scartoffie dei servizi, Letta avrebbe fatto la classica figura del debole cappone raggirato da personalità più robuste. Conte non è uno statista, non ha alcuna cultura politica, ma non difetta certo di furbizia. Di una furbizia tutta sua, di uomo dell’avvocatura, delle consulenze, delle trovate creative per entrare da parvenu nel mondo che conta. Più che uomo di studi è un uomo dello studio (Alpa) che intrattiene relazioni, ricerca influenze, gestisce pratiche.

Quelli come Bettini o altri (si narra di D’Alema) che si illudevano di essere gli indispensabili consiglieri dell’acerbo avvocato estraneo alle élite (così lo raffigurava anche Bersani per distinguerlo dal Draghi pericoloso campione delle tecnocrazie europee) hanno sottovalutato la caratura del personaggio. Che per la sua modesta levatura ha sì bisogno di consulenti per orientarsi nelle questioni di cultura politica e per districarsi nell’idea complessa di governo, ma non ha certo alcuna necessità di ricevere dritte su come farsi largo a danno del personaggio che reputa più fesso di lui. Sa come mostrarsi pronto per infilare una pedina al posto giusto, non esita quando si tratta di spingere nel baratro qualcuno che percepisce come anello più debole. Un anonimo che diventa capo di governo, e che una volta al potere non intende mollare di buon grado il controllo dei servizi, non va mai sottovalutato nelle sue infinite risorse sotterranee. Il cuore lo ha riportato al verde di stampo salviniano e il fascino del segreto che domina nel mondo arcano che lo chiamava “Giuseppi” lo ho indotto a pescare un nome magico, perfettamente sconosciuto alla pubblica opinione e assente da ogni dibattito politico-istituzionale-culturale, cui rivolgersi per edificare la repubblica del segreto di Stato.

Il fu riferimento dei progressisti ha ricevuto investiture trionfali da penne di sinistra liberale come Urbinati, da politologi come Ignazi, da storici come Canfora. Tutti a rimpiangere la vittima sacrificale del “Conticidio” e a santificare l’avvocato del popolo come campione di un improbabile socialismo liberale maltrattato dalla epistocrazia. È un nulla politico Conte, che non disdegna l’avventura. Che magra figura hanno fatto i quadri di antica provenienza comunista che lo hanno acclamato sedotti dal verbo del “patriota” Travaglio. Interrogato prima del voto amministrativo sull’appeal inarrestabile e la crescente “curiosità femminile” verso Conte, accolto trionfalmente nelle piccole cittadine della penisola, un antico segretario del Pd aveva risposto così: «Conte è visto come una persona sincera e non un traffichino. Su questo le donne hanno più sensibilità. Conta essere come si appare e se sei di bell’aspetto è ancora meglio». Insomma: lo studio Alpa-Di Donna è un luogo incontaminato dell’anima e il canto “Sei bellissimo” intonato nei piccoli centri della Calabria appariva come un segno di autenticità valoriale che però non si trasferiva nelle più prosaiche schede elettorali.

Il chiacchiericcio sul “Conticidio” ordito dai poteri forti e la celebrazione della grande seduzione erotica dell’avvocato acclamato dalle folle come una star della tv hanno rivelato l’evanescenza culturale della sinistra. Il suo avvocato del popolo, alla ricerca delle “eccellenze femminili”, aveva siglato un accordo nel segno della provocazione istituzionale sorretto da una spericolata convergenza con la Lega e Fratelli d’Italia. Nel suo sogno illiberale di un Quirinale custodito dai servizi e affidato alle mani che hanno il controllo delle informazioni, Conte è stato infilzato insieme alla Lega. Ma Letta e soprattutto i consiglieri ex comunisti di Conte non cantino strofe di gioia per aver richiamato Mattarella al Colle immaginando che il gioco sarà quello di prima. Senza il soccorso del leader di Italia Viva il non più esule segretario parigino sarebbe stato trafitto per un incauto affidamento e la sua umiliazione consegnata alle immagini di quei capitomboli politici clamorosi che si raccontano per decenni in maniera fiabesca.

E per questo Letta ringrazi per una volta il liberatorio campanellino di Renzi che, insorgendo con l’opportuno impeto contro l’inopinato reclutamento della donna “in gamba” e custode dei segreti della ragion di Stato, gli ha assicurato la possibilità di rinsaldare la sua leadership. Convochi, approfittando dei pochi mesi di stabilità apparente, un vero congresso programmatico per abbozzare uno straccio di modello di partito. E, ora che lo spettro bi-populista ereditato dall’insipienza di Bettini-Zingaretti è scacciato, ne tragga l’occasione per disegnare lo schizzo di un diverso sistema politico. Lo schema fin qui proposto, il nuovo Ulivo per presidiare un campo largo, non regge. La forma coalizione è sepolta dopo i sospetti di agguato che si insinuano tra i giallorossi e la caduta della ricomposta coppia gialloverde benedetta da Travaglio, che ora, tramontato il sogno di una oscura repubblica dei servizi e delle procure, indaga con tono inquisitorio su “chi ha ucciso la Presidente donna”.

Grazie all’insubordinazione di coloro che hanno alzato la voce contro il grillino “Benvenuta Signora Italia”, Letta può assaporare il gusto della vittoria tranquilla. Ma la sua è solo una vittoria preterintenzionale. Invece di fare festa, il Pd dovrebbe lasciare sfogo al dubbio dei vincitori e, perché no, interrogarsi sulla lealtà, l’affidabilità del suo “punto di riferimento fortissimo” in un campo così largo da essere malsicuro.